La ragazza sul palco spalanca le cosce
ad angolo piatto a formare un segmento
di retta che per punto medio ha la fica
e i ginocchi agli estremi. Una striscia di pelo
sta come una penna al di sopra del solco
glabro roseo. Appoggia le dita
sui grandi labbri e con mossa studiata
li tira aprendo il sipario su un varco
profondo e ombroso, poi tira di più
e il varco si rivela una voragine
a forma di losanga. È il compimento
d’uno striptease armonioso: danzando
la ragazza ha lasciato cadere una vestaglia
rossa, è scesa in sala a farsi togliere
da un uomo il reggiseno, è risalita
sinuosamente sul palco ad agitare
le grosse poppe con le grosse areole
brune sporgenti, è ridiscesa in sala
lasciando a un altro uomo il perizoma
e nuda tranne le calze e il reggicalze
e le scarpette a spillo è risalita
per il finale panoramico. Replica
le mosse sullo spigolo del palco
in tre punti diversi: vuole offrire
a molti spettatori la visione
ravvicinata della fica slargata.
Poi fa un inchino e sparisce fra gli applausi
dietro la quinta del piccolo teatro,
ma dopo due minuti ricompare
da un’altra porta, ha la vestaglia rossa,
va al banco del bar, due uomini l’abbordano,
parla e ride, con uno riscompare
nella porta, una porta che va
a camerini e camere, mentre
sul palco già appare un’altra ragazza.
Mi spiega un avventore: «Queste troie
fanno ognuna cinque numeri per notte
sul palco e cinque volte vanno in camera
se trovano chi paga. Io preferisco
stare a guardare, non ho soldi da spendere
e poi chiedono troppo, sono tutte
vacche sventrate, alla fine». Distratto
annuisco: «Sì, anch’io guardo soltanto».
Ma non ho voglia di conversazione,
lo pianto in asso, m’avvicino al bancone
per un cocktail analcolico e comunque
con la ragazza della vestaglia rossa
qualcosa ci farei, pare graziosa.
Scritta nel 2018.