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Su una panchina in un giardinetto
ad Acqui Terme mangio una coppetta
di gelato, presa da “Crema e frutto”,
via Monteverde quarantadue.
Riesco a sporcare di gelato al cioccolato
il dito, il palmo, un asse della panca
e un lembo della maglia: so fare di meglio,
per esempio anche la borsa e i pantaloni.
Mentre mangio con gusto, mi ricordo
che al mare, certe volte, da bambino
mi prendevano un gelato speciale:
nella coppa di vetro, al tavolino.
Un gelato da grandi, si chiamava “paciugo”
in un bar nel carrugio di Sestri Levante:
un gelato importante. Succedeva di rado,
due o tre volte in tutte le vacanze.
E mi viene una domanda: ma quando
a sette anni mi prendevano il paciugo
in quel bar che mi colpiva perché aveva
due uscite su due strade diverse,
ero felice? Ci penso e mi pare di no:
mangiavo avidamente, ma in affanno:
avevo dentro una specie di tensione
e quasi d’ansia: non godevo bene.
Quella tensione ce l’ho ancora dentro
a diversi livelli, qualunque cosa io faccia:
anche adesso, qui ad Acqui, sulla panca
all’ombra, mentre finisco il gelato.
Come funziona la felicità?
Forse ho sbagliato la mia impostazione
da sempre: ho mirato a rimuovere da me
quella tensione inquieta, ho mirato
a riposare in un quadro pacato
dove gustare il buono della vita
senza tensione – che poi forse vuol dire
senza conflitto, senza relazione.
Solo da solo e senza fare nulla
mi è parso d’essere felice davvero
per un minuto o due. E invece dovevo
esercitarmi a esserlo in tensione:
felice nella vita, non nei margini:
lieto nel gusto, non nel retrogusto
portato su papille di memoria
nella tana a goderlo in santa pace.
Vabbè. Strani pensieri. La coppetta
non so se fosse buona, era normale
e m’è piaciuta qui su questa panca
in questo pomeriggio ad Acqui Terme.
Farò altri giri in paese, c’è il sole
dopo la lunga pioggia di stanotte:
è bello questo scenario in esterno:
ciò che so è che vorrei vivere in eterno.
Scritta nel 2019.