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Carlo Molinaro

~ poesie e altre cose

Carlo Molinaro

Archivi Mensili: marzo 2017

Carmen technicum

28 martedì Mar 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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linguaggio, riflessioni

Il segno disegnato da Saussure
a me pare una macchina celibe:
ha due facce che fra loro comunicano,
significante e significato, ma il significato
non è le cose. Le cose stanno fuori,
appena sfiorate da un debole nesso:
funziona il segno solo dentro sé.
Racconta Franco che Adelaide Petz
von Drauenau diceva che l’osmosi
parola-realtà finisce già in Kant:
ma che faremo dunque? Le cose,
le cose, furibondo folle amore
che anche quando s’apre ti respinge,
che anche se risponde t’abbandona
al tuo gioco di segni, di sogni. Non so:
m’accusano talune femministe
di ridurre a oggetto le donne.
Hanno ragione, a volte, però sbagliano
verbo: non ridurre ma innalzare
a oggetto contemplabile, stupendo
senza limite di lingua o relazione
come un paesaggio, un elefante, un treno,
un vortice di foglie dietro un tram,
l’odore d’una piega di mucose:
l’assoluto ineffabile oggetto
(ma ineffabile è simile a nefasto,
in-ex-fa-bilis, ne-fa-stus
fa- ri, fa-tus, φημί, dal principio
la lingua, beffarda, si autodenuncia
e non si pente) – l’oggetto
vero che siamo, sotto l’essere persone
significanti, celibi: non posso
spiegarlo – è naturale che io non possa,
è come dire l’acqua agitando
dell’acqua con le mani: la parola
resta fuori, ma queste che scrivo
sono parole.

Un dizionario greco-inglese on line
traduce τέχνη con skill, immagino
Efesto che porta un curriculum
a un’agenzia interinale, rimango
ancora un poco a giocare.


Scritta nel 2017.

Meno male

28 martedì Mar 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore vissuto

Meno male che abbiamo
rifatto l’amore,
che poi si muore
e ciò che è perso è perso
– da dieci anni fa
è stato diverso
o anche uguale: il campanile,
la luce alla finestra,
la pelle, tu, il sapore,
io – e come sempre
il mio non sapere che accadrà veramente
finché non siamo
abbracciati nudi
sul letto: questo mio
non capire mai niente,
questa eterna prima volta
con ansia trepidante:
non sarò mai tranquillo
né annoiato – tu
sei così bella ancora.


Scritta nel 2017.

Stare abbracciati

28 martedì Mar 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore vissuto

stare abbracciati in silenzio, sentire
della pelle l’odore, del cuore
il ritmo, e dei pensieri solamente
la musica, il ronzio

lo si può fare il primo giorno oppure
dopo anni di discorsi, di percorsi

quando funziona, tutto si sospende
in una dimensione di bellezza
che né tempo né spazio può toccare:
in due si è superiori agli dei


Scritta nel 2017.

Un altro tipo

08 mercoledì Mar 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore

Ci dev’essere un altro tipo d’amore,
una specie d’empatia calda, indifesa
e quasi priva di sagoma, molle
nello riempire le scabrosità, nel colmare
gli spigoli inglobandoli: un sogno che anziché
volare sottile, intatto, con timidi scambi
di luce, si condensa in materia
scura, densa, si plasma in oggetti
conservabili come zuccheriere
per un tempo, in un spazio: oggetti
frangibili come ricordi in ceramica
sulle madie nei tinelli, rinunce
teneramente opache ai polpastrelli
che trepidi o non trepidi ne sfiorano
la forma, la sostanza. Ci dev’essere
un amoroso storpiarsi, rovesciarsi
come teste di polpi battute su pietre
per farle commestibili, un accogliere
la crudeltà dei profili dei giorni,
lo strazio di piccole lame banali
a scorticare adagio, come se esistesse
qualcosa oltre che pacatamente
sarà da non capire, non raggiungere,
recuperando l’inconsapevolezza
innocente, sicura, del lombrico.


Scritta nel 2017.

Liquido ma solido

02 giovedì Mar 2017

Posted by carlomolinaro in prosa

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riflessioni

La lettura di «Amore liquido» di Bauman mi dà alcuni spunti di riflessione personale. Illumina in qualche modo la mia idea (il mio sentire, il mio delirio) di amore libero multiplo «ma» intenso ed eterno – un’idea (un sentire, un delirio) che mi accompagna fin dall’adolescenza.

Nella società contemporanea «occidentale» si sono attenuate le strutture relazionali solide fondate su legami di sangue (la parentela) o promesse/contratti irreversibili (l’affinità, determinata dal matrimonio pensato come indissolubile).

Queste strutture solide erano molto rassicuranti e costituivano il «pilastro» della società stessa. Ma erano, anche, fondate su una finzione e su una prigionia.

Non si era legati perché si provava un sentimento, ma si decideva che si provava un sentimento perché si era (per sangue o per promessa/contratto) legati. Devi amare il padre, devi amare lo sposo, perché altrimenti è l’inferno, per tutti. «Dover amare»: un delirio più assurdo di qualsiasi fantasia di poeta, ma che ha retto il mondo per due o tre millenni, trasformandosi in necessità sociale, politica ed emotiva. A conferma che la distinzione fra un delirio e millenni di storia dell’umanità è del tutto opinabile (il che già vedo molto ben delineato nei tragici greci – ma non divaghiamo troppo).

L’attenuarsi di questa rigida rassicurante gabbia di strutture relazionali lascia un immenso vuoto. Un vuoto angoscioso. Un vuoto terrificante. Un vuoto meraviglioso.

Le relazioni diventano libere, fondate su ciò che si prova e non su ciò che deve essere (perché stabilito una volta per tutte dal sangue o dalla promessa).

Un subitaneo invaghimento può avere più valore che dieci generazioni di sangue. Ciò rappresenta una minaccia terribile che la società, anche attraverso la letteratura, ha sempre respinto con violenza spietata: gli amanti irregolari devono morire, nella realtà come in ogni poema o romanzo o fiaba o tradizione.

Il sentimento-contratto, sancito dalle discendenze o dal matrimonio, è immutabile, necessitante e rassicurante: sull’altare di tale sicurezza è valsa la pena di immolare ogni diversa emozione, ogni diverso sentire. Conta la conservazione, il rafforzamento, la potenza dell’alveare, non l’interiorità dell’ape. La sicurezza ha ucciso da sempre, da ben prima che gli anarchici lo scrivessero sui muri con lo spray.

Ora però quella sicurezza vacilla, perché il valore si sposta dalla struttura sociale al sentimento individuale, ovvero a ciò che ognuno prova «veramente» (ossia non per finzione derivata da necessità, sangue, contratto). Ciò è meraviglioso e disgregante.

Il sentimento personale è finalmente libero e vero ma, proprio per questo, mutevole e non rassicurante. Ci si trova, appunto, in un liquido, senza nulla di solido (fosse pure una pesante catena) a cui aggrapparsi. C’è ansia, c’è il rischio di sentirsi sperduti, spaesati.

Le reazioni le vediamo. Il potere economico-culturale cerca di trasformare il sentimento e la relazione in un bene di consumo, di depotenziare le emozioni in un discorso di salute/malattia, con tanto di esperti e specialisti che vengono in soccorso. L’altro si riduce a oggetto: va bene finché ti va bene, poi lo butti via e ne cerchi uno diverso, più perfezionato per le tue esigenze. Uno che ti faccia stare meglio. Un meccanismo deprimente, ossessivo, che non può aprirsi a nessuna forma di felicità, ma solo chiudersi in brevi anestesie.

E allora? Non c’è via d’uscita? Si può scegliere solo fra il burattino mosso dai fili delle strutture rigide (solide) del passato e il burattino usa e getta del presente (liquido) consumistico?

Io credo che sia necessario fissare meglio lo sguardo proprio sul sentimento, sull’emozione, su quell’amore che non sappiamo mai ben definire.

Il sentimento d’amore, in tutte le sue sfumature, non è una bagattella romantica ma qualcosa che ci incide con luminosa, tragica, eterna potenza. Se un invaghimento può valere dieci generazioni di sangue, è proprio perché contiene la forza prima, il motore fondamentale del nostro essere. È una forza che agisce e opera da sé, a prescindere da concretizzazioni materiali.

A ridurlo a bagattella da deridere, schiacciare, lavare via, è stata proprio la struttura rigida del patriarcato, del potere del sangue. L’amore (per sua natura anarchico, mutevole e irriducibile) non fondava affatto i matrimoni (le famiglie, i patrimoni): era bensì la più grave minaccia contro di essi. Andava perciò ridicolizzato, annientato, spostato in spazi di delirio, talvolta sublimato in arte, ma sempre dichiarato «irreale».

Solo che ci siamo così abituati a considerarlo una bagattella, una scemenza da poeti e da pazzoidi, che non riusciamo davvero a vederlo in altra luce. Il risultato è che, liberati (in qualche misura) dalle solide (imprigionanti) strutture del passato, ci troviamo a vivere di bagattelle (facilmente trasformabili, dal potere, in beni di consumo, da vendere al dettaglio). Il che è ben triste cosa!

E invece, proprio nel momento in cui lo liberiamo dalla griglia della necessità sociale, dovremmo fissare lo sguardo su quel nostro liberissimo e profondissimo sentire. Dovremmo metterlo al centro. Diamo agli amori uno sguardo amorevole! Lasciamoci modificare, incidere, segnare. È lì (non nel contratto, non nella promessa) la permanenza, la sicurezza. Qualcosa che nessuno può togliere mai più.

So di uomini che dopo mezzo secolo di matrimonio hanno ammesso, con qualche vergogna, che il loro ricordo più vivido era un bacio dato a una passante per caso. Con qualche vergogna, perché «non doveva essere» così. Già. Però «era» così. Veniva riconosciuta, alla fine, la verità.

Ecco, sto arrivando al mio personalissimo (forse delirante) punto di partenza. Amori liberi, anche multipli, anche simultanei, «ma» profondi ed eterni, perché ci costruiscono – e ci costruiscono insieme. Perché sono importanti in sé. I percorsi che generano possono variare, allacciarsi e slacciarsi, intrecciarsi e sciogliersi, ma contengono qualcosa di irreversibile, di perenne. Qualcosa che ci mantiene in relazione anche se una relazione è «finita» nei fatti quotidiani – addirittura, forse, anche se non c’è mai stata.

Sarà delirio, ma mi sembra pure, paradossalmente, l’unica soluzione ragionevole al dilemma della contemporaneità. Se meravigliosamente finalmente crolla lo pseudovalore della prigione sociale rassicurante solida, o troviamo il valore vero nelle scaglie di luce che ci toccano e ci sollevano a nuovi cieli mentre nuotiamo liberi nel liquido, o non troveremo nulla mai più.

Non è facile questa rivoluzione, c’è il rischio che davvero non troveremo nulla mai più. Documentari su Stati sociali assistenziali avanzati (la Svezia) sembrano suggerire che, affrancati dalla gabbia delle necessità incrociate, restiamo in solitudine. Ma allora forse vuol dire che la desideriamo, la solitudine; e che pagavamo il prezzo della relazione solo per avere in cambio una casa, un piatto di minestra e due carezze calde.

Io però spero che vada diversamente. Che si abbia il coraggio di tuffarsi consapevolmente in una vertigine oltre la quale potrebbe esserci un mondo nuovo. Ecco, questa è in sostanza la mia idea (il mio sentire, il mio delirio) di amore libero. Forse la farneticazione di un pazzo, però una farneticazione molto seria.


Scritto nel 2017.

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