Mi piace ritrovarti nei suoi versi: riconoscerti in un disegno nitido senza l’ansia di mie sbavature
(mi hai detto quell’ultima volta al telefono: “Carlo, spesso ricordi a modo tuo”)
I suoi versi sono bellissimi limpidi anche nei punti crudeli dove io invece mi confondo e intorbido.
Ce ne sono tre che ho imparato a memoria chiudono una poesia di salire le scale scale che anch’io ho salito con te
«Come un passero senza nessuna madre, sei stata in quel nido a cibarti di solitudine, fino a quando hai deciso di prendere il volo.»
È bravo, quel «nessuna» è magistrale, parola chiave fra parole semplici come elementi chimici periodici che fanno tutto ciò che il mondo è.
La stessa Musa in due, credo che sia poco frequente – però ti piaceva essere nelle poesie d’entrambi: t’è successo persino di confondere l’uno con l’altro e io, il meno amato sono lieto che tu ci confondessi.
Infine entrambi hai condannato a scrivere poesie di dopo il volo, non avremmo voluto mai, voluto mai. Non so vivere adesso, adesso dopo te.
Mi piace ritrovarti nei suoi versi: t’abbiamo amata come s’è potuto: niente è mai stato facile, lo sai.
Oggi pomeriggio mi sono accucciato in riva al fiume, proprio vicino all’acqua, fra l’erba alta e le canne, con il culo in umido. Il culo in umido: infatti non mi sono accucciato, mi sono seduto. Non so stare accucciato, non ero capace neanche da bambino. Perché allora, di getto, ho scritto accucciato? Perché è un’immagine, un quadretto. Perché il linguaggio ha i suoi solchi e anche se cerchi di camminare di traverso ci finisci dentro, come la ruota della bici nella scanalatura del tram se non c’è angolo abbastanza, e cadi.
Guardavo il fiume, il colore di poco prima che vada via il colore, nella sera. Sull’altra sponda passavano ancora camminatori e ciclisti. L’aria prendeva sapore. Il mio fiume, la mia aria, i miei ciclisti. Però no, invece: nulla di mio.
Ogni sguardo cattura, trasforma, possiede. Ciò che attraversa le cornee dei miei occhi, i timpani delle mie orecchie, la pelle delle mie dita, prende vita dentro me. E diventa ciò che so, tutto ciò che so del mondo. E invece non lo posso sapere. È solo il mio sguardo, la mia sensazione. Roba piccola, limitata, chiusa in me. Questo, di per sé, sarebbe un problema di scarsa importanza. Ma se la roba la tiro fuori in una relazione, va a toccare il contenuto di altri sguardi, il filtro di altre cornee, la sensazione di altri polpastrelli, allora ci sono scintille come di una mola su una lama, il mondo è da ricostruire ogni momento. È faticoso. Ma è bello. Si chiama condivisione, unione. Forse, portato all’estremo, si potrebbe chiamare persino amore.
Impararlo da piccoli aiuta a vivere in armonia. Non impararlo, forse, fa diventare assassini, oppure scrivere poesie. L’arte proietta quell’esasperato egocentrismo del sentire, quel confondere il cielo con la fotografia scattata al cielo. Le fotografie sono bugiarde. Eppure a tratti, raramente, una fotografia coglie qualcosa che non sarebbe mai stato colto nella sana dialettica degli sguardi. Da una profondità autistica, lancia un dettaglio, piccolo, di cielo che, misteriosamente, va a illuminare meglio, per tutti, il cielo. Allora è utile. Raramente.
Ma il rischio è forte, la responsabilità è alta. I poeti più cauti le Muse se le inventano, così non c’è problema. Non risulta che Beatrice abbia passato lunghe notti a confidarsi con Dante, né gli abbia corretto qualche verso. Nella Commedia, è un personaggio di fantasia, come Catone, come Farinata degli Uberti, come Francesca da Rimini: che siano veramente esistite, quelle persone, è irrilevante.
Chi come me non sa inventare ma soltanto sognare – e anche il sogno può essere un sopruso – incappa in una Musa più attiva, più forte – forte in un’inquietudine senza tregua, in una tragica fatale fragilità – non c’è contraddizione – capace di fracassare i quadretti, di imporre e difendere sé stessa, di chiedere cura per lei tutta vera e intera, non per un vano vagheggiare – difendendo, alla fine, anche l’autonomia del fiume, del colore, della sera – sfrondando l’ego ai poeti che scrivono, scrivono: rivelando a loro stessi, come a sé stessa, di che lacrime grondi, e di che sangue. Un’operazione dolorosissima, salutare.
“Se lo sai senza poterlo sapere, se lo sai ma non è tuo… potresti averne cura. Non è necessaria facoltà d’amore per questo ma è sufficiente il senso della lealtà e una minimale intelligenza. Io credo che tu sia intelligente, Carlo, che tu sia molto intelligente. Avrai modo di mostrare la tua cura” (messaggi di C., 2 febbraio 2021).
Del libro che avevo preparato a dicembre, ho buttato via la metà. L’altra metà uscirà, è deciso, nella collana Sonar delle Edizioni del Faro. Grazie alla proposta gentile di Paolo Agrati, e alle cure di Adriano Cataldo. Non è possibile dare ancora una tempistica, ma è deciso, e perciò lo annuncio. È una collana bellissima, non bulimica, tre libri in tre anni, tre libri che ho letto e che mi hanno colpito, è un onore essere il quarto. Tre autori nati nel 1984, 1985 e 1992. Mi sento bene con loro, io che sono per sempre un poeta, più che emergente, annaspante, uno che non sa ancora bene cosa dire, percepisce stonature in ogni verso e china il capo davanti all’immensità del fiume, dei colori, della Musa, di tutte le cose vere, di tutte le cose sul serio. Un’emersione (emergenza?) continua – che poi, una volta che fossi emerso, non saprei più neanche cosa fare. Guardo, vivo, lentissimamente imparo, poi andrò via, non importa.
Ah, ecco, dimentico sempre qualcosa: il titolo del libro sarà Un garbo libero. Conterrà una nota, o prefazione, che mi ha scritto il bravo Alfredo Rienzi. C’è altro da dire? Adesso, mi pare di no. Poi vi terrò aggiornati.
Era meglio seppellirti accanto a un albero tu che li amavi e ti ci arrampicavi così in alto da farmi paura, guardavo – animale pesante – da sotto te che agile salivi. Era meglio seppellirti fra le radici, che l’albero potesse in rami e foglie trasformarti, primavera.
Abbiamo strane usanze deplorevoli: casse di morto legno duro e zinco a prolungare decomposizioni non fertili, inutili, in muri di loculi.
Ma tu – io credo – in luoghi che nessuno può sapere né dire, fiorisci.
mi sento il corpo soffocato di pietrisco come un topo schiacciato da ruote su una carreggiata friabile a cui si mischia, s’impasta – non è interessante
scrivo per aggrapparmi a qualcosa ma ha sempre meno senso, si allarga lo spettro infrarosso o ultravioletto il fischio che solo certi cani odono
non assomigli alle fotografie somigli all’amore tenuto fra le braccia
(per comunicarmi come ti sentivi quando eri lontana, mandavi raffiche di foto sul telefono anche in lacrime, disperata da nessuno ti saresti fatta vedere così – con me eri spudorata)
dio santo, lo so che è tutto un nodo so che tutto è il rovescio di tutto, ma se non ci siamo amati l’amore non esiste
(mi dicevi che riuscivo sempre ad arginare le tue angosce – ma poi non me l’hai più permesso … ti fossi stato accanto afferrarti, tenerti tenerti, tenerti, finché passa, bambina)
ho sempre pensato che i tuoi baci sarebbero stati gli ultimi di questa mia vita ma ultimi i miei della tua no no, no, no, non doveva finire così
sciocchezze, scrivo per tenermi non so nemmeno perché voglio tenermi s’è spezzato l’anello ho visto Nina cadere fra le corde dell’altalena
stamattina mi sono svegliato fra le tue ossa dilaniate circondato dalla tua gabbia toracica sottile un organo abusivo un feto morto in un utero di costole
è stato, più che un sogno, un sentire nel risveglio poi la sensazione si è dissolta lasciando il vuoto
quest’impotenza così definitiva ieri scrivendo contro i vaccini obbligatori ho pensato che con un TSO i farmaci psichiatrici che non volevi prendere forse…
no
tutto si sovrappone, il piccolo fico che t’incuriosiva sul nostro terrazzo
[il “nostro” terrazzo: curavi la casa
come una sposa – sapevamo
che era un gioco provvisorio
però che meraviglia]
traslocato qui in piazza Sofia è rigoglioso è rigoglioso, lui, bastardo – no, scusa, fico, non volevo, è un delirio
vive in un vaso, vive dove lo si porta e se invece fosse nato in un bosco sarebbe rimasto tutta la vita nel bosco come fanno gli alberi
però la sua storia è diversa, te l’avevo raccontata a Vercelli mia madre mi aveva detto: togli quel rampollo di fico che infesta l’aiuola dove non deve essere e buttalo nella roggia
invece me l’ero portato in treno a Torino ed è qui, rigoglioso, affacciato su piazza Sofia, adesso
avrei voluto tenerti sempre con me tu erba strappata curarti, proteggerti, innaffiarti è un discorso cretino lo so ogni persona è un mondo indescrivibile inconoscibile
[non ho imparato ad annaffiarmi da sola – dice un verso d’una tua poesia]
ma ci siamo mescolati così da non poter più staccare certi pezzi pezzi di me si sono schiantati nello schianto delle tue ossa sottili si sono spenti nel tuo corpo inquieto
trasformarli in ricordi è un palliativo difficile e poi perché, per farli rimorire con me? anche i ricordi muoiono sono così confuso, così perso
ci siamo a lungo mescolati ma c’erano parti insolubili, dure ghiaccio tagliente che gelava e straziava il tuo mare
nessun abbraccio né mio né di nessuno poteva scioglierlo
[anche il mio cuore è pieno di sassi
qualcuno tu l’hai tenuto nelle mani
con amore]
adesso ho comunque messo la videocamera a filmare l’aurora forse faccio il caffè e viene primavera vita immensa leggera se esiste un luogo, aspettami aspettami se vuoi