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Carlo Molinaro

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La mantide, la scolopendra e il ragno

22 venerdì Ott 2021

Posted by carlomolinaro in racconti

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Tag

esopo moderno

Quando s’incontrano una mantide e una scolopendra, l’esito è incerto.
Scatto, potenza, velocità, fortuna.

Talvolta la mantide riesce con le sue potenti tenaglie a bloccare la scolopendra, impedendole il morso velenoso, e con le fauci la taglia in due, e la svuota, mangiando come da un vasetto aperto la tenera polpa bianca che stava sotto le squame. La mantide si sazia e sul terreno resta della scolopendra un guscio secco spezzettato.

Talvolta invece la scolopendra resiste alla presa e contorcendosi raggiunge con la bocca il ventre molle e grasso della mantide, vi inietta il veleno, lo perfora, lo apre, ed è lei a mangiare dal buco aperto la tenera polpa bianca. La scolopendra si sazia e sul terreno resta della mantide un guscio secco spezzettato.

Se l’incontro è fra una mantide e un ragno, la questione è differente. Il ragno, anche piccolo, è vittorioso sempre se la mantide, volando, s’impiglia nella sua tela: in un attimo viene avvolta di fili, ripiegata, immobilizzata, e poi lentamente succhiata viva fino all’ultima goccia di umore. Se invece l’incontro avviene a terra, solo ragni molto grossi e velenosi hanno qualche possibilità di cibarsi di carne di mantide – altrimenti, è il ragno a diventare cibo.

Ada, la fidanzatina del ricco rampollo beota, era una scattante piccola scolopendra che bene difendeva il suo amore, ossia la sua fonte di sostentamento. Da pochi mesi una mantide, una gran figa che era partita all’attacco per accaparrarsi il generoso principino, era stata intercettata e, dopo una breve lotta, spolpata. Il pettegolezzo aveva rapidamente portato in giro l’immagine del guscio secco della mantide abbattuta, e Ada la scolopendra ne era uscita rafforzata: altre pretendenti ci avrebbero pensato bene, prima di provarci.

Tuttavia Asia, una modella di rara bellezza nonché abilissima porca d’alto bordo, ritenne di potercela fare. Gli affari non andavano bene, pochi e avari erano sia i fotoamatori sia i clienti d’alcova. Il ricco rampollo era un’ottima occasione: spremerlo bene, per qualche mese almeno, onde risollevare il bilancio. La mantide Asia si fece sotto, cominciò a strusciarsi sul rampollo, e a piacergli.

Ada immediatamente le fu addosso. La velocissima scolopendra puntò al ventre della mantide, che però fu più fulminea, bloccandola fra le chele. La centipede, esercitando tutta la sua forza, riuscì ugualmente ad avvicinare le fauci all’addome dell’avversaria. Furono attimi drammatici: la scolopendra si contorceva, si divincolava, la mantide non riusciva a immobilizzarla del tutto. Il rostro dell’irta scorpioncina sfiorava la pelle della verde predatrice, la quale a sua volta cercava di infilare la bocca tagliente fra i segmenti del corpo squamato.

Prevalse infine la potenza della mantide: lentamente dilaniata, la scolopendra si divise in due monconi. Era finita: la mantide se la divorò con gusto. Asia aveva tolto di mezzo la tenace fidanzatina a lungo mantenuta dal rampollo; non le restava che volare sul principino, e ricavarne il massimo, grazie alla sua bellezza e alla sua sensualità di navigata puttana.

Ma un’altra pretendente aveva seguito fin dall’inizio tutto l’evolversi della faccenda, tifando per la mantide. Michela, una donna ragnetto, una giovane studentessa molto interessata al rampollo, odiava Ada, ma sapeva di essere troppo piccola per poterla affrontare direttamente e sottrarle la preda. Un ragnetto nulla può contro una scolopendra.

Così Michela, sul percorso che necessariamente portava al principino, tessé una potente ragnatela: inutile contro le scolopendre, ma molto efficace contro le mantidi, insetti alati. La divoratrice Asia certo non se l’aspettava, né avrebbe potuto vederla. Spiccando il volo dal terreno dove erano rimasti segmenti secchi della spolpata Ada, puntando veloce sull’ormai conquistato rampollo, la mantide s’impigliò nei viscosi fili e ne fu avviluppata. Lesta la donna ragnetto la avvolse in trame sempre più strette, schiacciandola. Poi, con calma, la svuotò, aprendole il ventre, e riducendola a spezzettati frammenti sparsi.

Fra la ragazza scolopendra, la ragazza mantide e la ragazza ragno, vinse dunque quest’ultima. La morale non c’è, perché questi intrecci d’interessi sono tutti immorali, ovviamente. Il ricco rampollo beota farebbe meglio a svegliarsi, e innamorarsi di un’innamorata davvero, magari donando ai poveri tutti i suoi beni così è più tranquillo. Ma che l’amore esista non è un dato sicuro, e poi è più divertente la lotta fra insetti e altri piccoli animaletti.

La Venere degli stracci

26 lunedì Giu 2017

Posted by carlomolinaro in racconti

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Tag

bellezza, donne nude

La sala è già piena, non posso sedermi nelle prime file, allora scelgo un posto molto laterale, l’ultima poltroncina a destra guardando il palco. Da lì potrò alzarmi in piedi e spostarmi contro il muro per fare le mie riprese video dello spettacolo di burlesque: da seduto inquadrerei solo le teste degli spettatori davanti a me. So che il mio video amatoriale è gradito alle due ragazze che organizzano la serata, dove si esibiranno decine di artiste, con diversi stili.

E così faccio: cominciano i primi numeri e mi alzo in piedi, appoggiandomi alla parete per riuscire a tenere più ferma la videocamera. Lo spettacolo è bello e cerco di fare del mio meglio: ho regolato la distanza fissa sui dieci metri, perché l’automatico, con la poca luce che si alterna al buio, sfocherebbe continuamente.

A un certo punto, ma solo a un certo punto, non subito, mi accorgo che dalla mia posizione ho la visuale di un paravento aperto, staccato forse un metro dal muro, che dà sullo spazio dietro le quinte, nei segreti che il pubblico non deve conoscere.

Non ho nemmeno per un istante la tentazione di puntare lì la videocamera: non mi permetterei mai. Sono un documentatore serio e ciò che voglio fissare nel mio archivio di ricordi, a disposizione della collettività, è lo spettacolo, non qualche impropria sbirciatina furtiva.

La videocamera no, ma la coda dell’occhio, insomma, alcune cose le vede. Fra attaccapanni che reggono sgargianti e succinti abiti di scena, tre o quattro ragazze si cambiano, restando per qualche attimo serenamente e completamente nude. Bene. Sono immagini radiose, semplici, che trasmettono gioia.

Una in particolare mi colpisce. In piedi di profilo, un poco china su un mucchio di panni colorati, si toglie le mutande, l’unico indumento che indossa: probabilmente si toglie le mutande di scena per indossare quelle della vita normale.

Il gesto è molto armonioso, lei è liscia come una statua, e così perfettamente nuda, piegata sui panni colorati, si trasforma nella Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto che c’è nel Museo di Rivoli: mi dà una sensazione di pace olimpica, di naturalezza vittoriosa.

Intendiamoci: il significato dell’opera di Pistoletto, quello che si trova nei saggi critici, che dicono perlopiù che vi si rappresenta la contrapposizione dell’arte classica con il disordine consumistico della vita moderna, che a me poi sembra una banale sciocchezza, non c’entra nulla. Io vedo la pura bellezza del corpo femminile alle prese con il gioco variopinto della quotidianità, senza alcuna contrapposizione – mi perdoneranno i critici e lo stesso Pistoletto.

Dunque mi godo il bell’insieme che dura per un attimo: sul palco, ragazze seminude danzano in lodevoli elaborate coreografie; dietro le quinte, una ragazza è nuda semplicemente, come fosse in camera sua, accanto a un armadio di colori messi a caso.

Oh, spero non dispiaccia il mio sguardo fuggitivo. Su quel metro di spazio fra muro e paravento si poteva forse appendere una tenda, però sarebbe stato un intralcio alle ragazze che entravano e uscivano frequentemente, trovo giusto non metterla. E poi, mica c’era nulla di brutto o cattivo o vergognoso, al di là: solo qualche piccolo riverbero di meraviglia, a saperla cogliere.


Scritto nel 2017.

L’uomo che fu ucciso da un dosso artificiale per interposta persona

24 giovedì Dic 2015

Posted by carlomolinaro in racconti

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Tag

giallo

Così, nella notte di Natale, da solo in casa, ma non è che mi dispiaccia, non ho voglia di uscire, mi era venuta l’idea per un raccontino un po’ giallo, ma poi mi accorgo che non sono capace, mi viene il titolo che è abbastanza divertente, forse accattivante, il titolo sarebbe L’uomo che fu ucciso da un dosso artificiale per interposta persona. La successione degli eventi ce l’avrei in testa, ma a me le successioni di eventi mi annoiano, mi blocco, penso ad altro, c’era quel regista che diceva che al pubblico devi dare tre cose, la storia, la storia e la storia, e a me invece la storia mi annoia, mi eccitano le immagini e le sensazioni e la storia mi annoia, sono un diverso, forse è una patologia, comunque adesso la successione degli eventi ce l’avrei in testa, ci sono due che vanno in auto, due fidanzati, maschi, gay, vanno in auto, un autore serio riempirebbe qualche pagina con chi sono e da dove vengono e dove vanno ma a me che importa?  Vanno in auto, facciamo che è sera, o notte, e davanti a loro c’è un’altra auto, è una strada di un quartiere residenziale di periferia, quelli che adesso a volte li rimettono un po’ a posto, la strada è stretta e a un certo punto l’auto davanti a loro si ferma e quindi devono fermarsi anche loro, che non c’è spazio per superare. Dall’auto davanti esce un energumeno, mi fa un po’ ridere la parola energumeno, insomma uno grosso, ma mi fa ridere anche dire uno grosso, mi sa di quei racconti dove c’è uno grosso, tanto si sa che c’è e mi annoio. Insomma, c’è uno che scende dall’auto davanti ed è incazzato nero, no, anche incazzato nero si usa troppo, io le parole abusate mi fanno star male, è una cosa fisica. Ma comunque è incazzato non si sa perché, si avvicina all’auto dei due fidanzati gay, apre la portiera e strattona fuori quello che guida, lo tira fuori di brutto, niente, anche di brutto è una parola che non mi piace, la mia è una condanna, sono assediato da narrazioni che mi nauseano, un attimo che tiro il fiato. Questo qui con violenza tira fuori dall’auto il gay che è alla guida e lo picchia a morte mentre il fidanzato terrorizzato guarda e grida, o guarda solo, non so se in questi casi si grida, non so cosa si fa, non so cosa succede. Ma adesso la situazione è che uno è morto ucciso da uno che è sceso dall’auto davanti che si era fermata bloccandolo. Qui si potrebbero fare un sacco di descrizioni, tre o quattro pagine di botte e di agonia, la disperazione, il dolore, io però non sono capace, comunque è morto e l’assassino (adesso lo possiamo chiamare così che è comodo e fa molto giallo) è lì tutto furioso ma anche barcollante, potrebbe essere drogato, oppure è fuori di suo, avrà i suoi problemi, roba anche da venti pagine ma non le so scrivere. Arriva la polizia, arriva in tempo per arrestarlo, potrebbe averla chiamata il fidanzato con il cellulare, oppure era una pattuglia che passava di lì, l’assassino prova a scappare, o non prova, sparano, intimano, bloccano, afferrano, a me che cosa importa? Lo arrestano, insomma, basta. Adesso facciamo che siamo alla stazione di polizia e interrogano l’assassino e il fidanzato gay del morto: che l’assassino sia l’assassino è assodato, si tratterebbe di capire perché l’ha fatto, io comunque sto facendo fatica a scrivere. Dopo vari torchiamenti (torchiamenti?) l’assassino dice, con quella voce un po’ rantolante catarrosa che hanno a volte gli assassini, dice: «A me non si fanno i fari». Qui si capisce che è uno di quei duri di periferia, instabili di mente, che ti ammazzano per una cosa qualsiasi, tipo appunto, si capisce, lui andava un po’ adagio, per motivi suoi, e il gay dietro gli ha fatto segno con i fari di accelerare, di togliersi dalle palle, e questo è un oltraggio, a lui non si fanno i fari, lui è forte e potente e la strada è sua, quindi è sceso e l’ha ucciso. Va bene, fin qui ci siamo. Il commissario o l’ispettore o quello che è, facciamo ispettore, praticamente chiude il caso, dice al fidanzato gay che è proprio una tragedia assurda, il suo compagno è morto ucciso da un pazzo violento per avergli fatto un segno con i fari. Qui potrebbe anche esserci in agguato alla stazione di polizia un giornalista che già scrive il pezzo, titolo Ucciso per un lampo di fari, la gioventù bruciata delle periferie, l’assenza di valori, la droga, le sale giochi, le famiglie sfasciate, poi per farci entrare pure che la vittima è gay vediamo dopo. Però il fidanzato superstite, benché affranto e distrutto, dice con sicurezza: «Alvin non ha fatto nessun segnale con i fari, sono sicuro che non l’ha fatto, era timidissimo, non l’avrebbe fatto mai, anche ai semafori sta sempre paziente, mai un clacson, anche se quello davanti è nelle nuvole e sta fermo tutto il tempo del verde, lui aspetta, zitto, nessun segnale, sono sicuro che non l’ha fatto». Alvin, che nome del cazzo, ma un’altra cosa che non so fare è inventare nomi ai personaggi. Insomma la cosa s’ingarbuglia, se Alvin non ha fatto segno con i fari allora che cosa dice l’assassino, c’è sotto qualcos’altro, forse non è così pazzo, forse è un omicidio premeditato, forse l’assassino è omofobo, è un vicino di casa dei fidanzati gay, non tollerava quello scandalo e ha fatto un agguato per picchiarli e ne ha ucciso uno. Però i bulli omofobi quando fanno i pestaggi di froci vanno in branco e con le armi, almeno delle spranghe, questo era da solo e l’ha ucciso a pugni, è strano, qui si potrebbero fare un po’ di pagine di psicologia, sociologia, ambiente urbano, questioni di genere, retaggi della sottocultura patriarcale, influssi dei modelli dominanti. E altri interrogatori, e discussioni fra l’ispettore e un investigatore privato con il cappello, magari anche uno strizzacervelli per il fidanzato superstite, che forse non la racconta giusta, e il trauma, e tutta questa storia, che già è assurdo e tremendo uccidere uno perché ti ha fatto i fari, ma se poi non te li ha fatti, che cazzo stiamo qui a dire? Uno bravo farebbe un po’ di pagine, io non sono capace, sono già stufo, tanto lì si deve arrivare: il dosso artificiale. Nella stradina del quartiere residenziale c’è il dosso artificiale per far andare più piano gli automobilisti, e a questo punto avete capito già tutto, no? Quando il muso di un’auto si alza a scavalcare un dosso, si alzano anche i fari, e da anabbaglianti vanno in una posizione da abbaglianti, e fa l’effetto di un lampo. Il rincoglionito violento nella macchina davanti ha creduto che quel lampo fosse che gli facevano i fari, si è fermato, è sceso e ha ucciso il guidatore dietro. E quindi il titolo è L’uomo che fu ucciso da un dosso artificiale per interposta persona. Bello, no? No, in effetti no, è una cazzata, non è il mio mestiere, e infatti io mica l’ho scritto questo racconto, stavo solo dicendo che appunto mica lo scrivo. È la notte di Natale, non ho voglia di uscire, ora mi faccio una tisana e vado a letto.


Scritto nel 2015.

L’uomo che sapeva della scolopendra gigante

06 domenica Dic 2015

Posted by carlomolinaro in racconti

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Tag

scenari

Wladim si svegliò e si alzò dal letto verso la metà della notte. Gli succedeva spesso. Talvolta aveva sete, talvolta bisogno di orinare – la seconda eventualità era diventata più frequente con l’età. Quella notte entrò in cucina, accese la luce, e non subito, ma dopo qualche secondo scorse qualcosa di nero muoversi sul pavimento. Guardò meglio, e distinse la sagoma di un animale vermiforme, segmentato, con molte paia di zampe. Sembrava una scolopendra, ma aveva la lunghezza di un gatto.

Wladim si ritrasse indietro, sorpreso e allarmato. Non poteva esistere una scolopendra di quelle dimensioni. Inoltre, in tanti anni, mai gli era entrata in casa una scolopendra: tutt’al più qualche piccolo scarafaggio, di quelli che infestano a volte le cantine delle case di città.

Prima che la sorpresa di Wladim potesse trasformarsi in vera e propria paura, l’animale corse velocemente verso la portafinestra del balconcino, che era socchiusa, e svanì nella notte. Wladim si affacciò, osservò il muro del palazzo, lungo il quale la scolopendra gigante stava forse scendendo, ma non vide più nulla.

Bevve un bicchiere d’acqua – cioè fece la cosa che era andato a fare in cucina – e tornò in camera, agitato. Gli pareva di essere bene sveglio, di non avere avuto un’allucinazione. L’animale c’era stato, aveva l’aspetto di una gigantesca scolopendra, e all’accendersi della luce era fuggito veloce proprio come fanno gli scarafaggi. La sua sagoma era rimasta bene impressa nella memoria visiva di Wladim.

Pensò a che cosa poteva fare. Chiamare la polizia? Chiamare un amico? Raccontare quello che aveva visto nel cuore della notte nella propria cucina? All’idea di parlare con qualcuno, si sentì invadere da una grande stanchezza. Dire, spiegare, e probabilmente non essere creduto. Una desolata, fastidiosa spossatezza gli toglieva la voglia e l’energia.

Per tutta la vita Wladim aveva sostenuto certe sue personalissime idee sulla vita, sulle relazioni, sull’amore, sul mondo. Idee in cui lui credeva profondamente, ma che nessuno mai prendeva sul serio. Era abituato a non essere preso sul serio, e talvolta s’incaponiva, si appassionava a sostenere le sue tesi impossibili, quasi si divertiva nello scontro con l’indifferenza o con lo scherno.

Ma, sulla soglia della vecchiaia, si sentiva ormai stanco. Verificò che tutte le porte e finestre fossero ben chiuse, e si rimise a letto. Avrebbe deciso l’indomani se raccontare o no ciò che era accaduto. Quasi con sorpresa, si accorse che l’agitazione passava, che subentrava una pacata rilassatezza: tornò a letto e si addormentò.

L’indomani, decise con facilità che non avrebbe raccontato niente a nessuno. Se la gente non prendeva sul serio le sue idee, che erano serie e fondate, figuriamoci una scolopendra gigante: tutti avrebbero riso di lui. Perché sottoporsi a una tale gogna? Era stanco. Senza nessun rimorso, stabilì definitivamente che l’animale sgusciato via dalla sua cucina sarebbe rimasto un segreto.

Passarono due mesi e mezzo, forse tre. Sulle pagine dei giornali, sui siti, nei blog cominciarono a circolare strane notizie, prima frammentarie, poi più articolate: parlavano dell’invasione di un pericolosissimo animale sconosciuto, che si riproduceva a una velocità incontrollabile. L’animale aveva l’aspetto di una scolopendra gigante.

Le fonti ufficiale dapprima smentirono, poi furono costrette ad ammettere qualcosa, e infine a dichiarare che sì, era in corso un’invasione pericolosa di animali non identificati, simili a grandi scolopendre.

Nelle trasmissioni televisive gli esperti mettevano l’accento sul ritmo di riproduzione dell’animale, che si moltiplicava in modo esponenziale. Calcolando dal numero presunto di esemplari oggi, spiegò un biologo, possiamo immaginare che i primi focolai risalgano a tre mesi fa. Se li avessimo scoperti, forse avremmo potuto stroncarli sul nascere. Ora probabilmente è troppo tardi.

Un entomologo spiegò che l’animale aveva la struttura di un insetto: la forza dell’insetto sta nella sua semplicità, nell’assenza di sistemi complessi respiratori e circolatori. Ma tale semplicità funziona se l’organismo è di piccole dimensioni, così che le parti interne possano ossigenarsi in presa diretta, senza un vero cuore né veri polmoni, e sotto la direzione di un cervello rudimentale. Come poteva un meccanismo così elementare essersi adattato alle dimensioni della scolopendra gigante? Questo era il mistero e questa era la minaccia principale: un animale più grosso di un gatto, ma con la resistenza di uno scarafaggio, è invincibile, sovverte l’ordine della natura.

Le scolopendre giganti non sembravano velenose e non erano nemmeno aggressive, ma avrebbero rapidamente sommerso e distrutto il pianeta con il loro stesso numero, come un’immensa marea nera brulicante di zampe. Poi forse si sarebbero a loro volta estinte, per mancanza di nutrimento – ma a quel punto per l’umanità sarebbe stato troppo tardi.

Le notizie, gli studi, i dibattiti si mescolavano alle fantasie e alle bugie. I religiosi parlavano di castigo divino per i peccati di donne e uomini; altri sostenevano che era stato l’inquinamento a generare i mostri, benché non fosse chiaro il modo. Gli esperti nelle riunioni segrete ipotizzavano una possibile salvezza per piccoli gruppi selezionati di umani, da rinchiudere in bunker sotterranei con acqua e provviste per un lungo periodo, in attesa che le scolopendre giganti completassero il loro ciclo di invasione totale e poi estinzione per sovrappopolazione. Ma questo non lo si poteva dire agli otto miliardi di abitanti del pianeta, destinati a soffocare in un oceano di mostruosi insetti.

Wladim se ne stava in casa a sentire le notizie. Meditava in particolare su quel fatto che, se scoperte due o tre mesi prima, forse le scolopendre si sarebbero potute fermare, annientare in tempo. Chissà se era vero. Wladim era stanco, non sentiva rimorso per essere rimasto in silenzio. Tanto, non lo avrebbero preso sul serio: era abituato. Andò in cucina a prepararsi qualcosa per cena. Il pavimento, per il momento, era sgombro e pulito.


Scritto nel 2015.

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