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Mi diceva un’antica
amica, giorni fa: «Non esporti
troppo, ti fai del male e non scalfisci
il pensiero delle masse e del potere».

Ma io adesso oppormi
lo sento un mio dovere.

Pur essendo vecchio
(così vecchio da più non sperare
in baci di ragazze, quasi unico
balsamo vero, non-mediato, al tragico
scivolo verso il nulla della vita)

pur essendo, dicevo, molto vecchio,
tuttavia nacqui che già da otto anni
era passato il venticinque aprile,
già sbiadivano le bandiere rosse
in stelle e strisce, in scudi crociati
(Stalin, lo so, sarebbe stato peggio:
c’erano idioti a invocare il baffone
quasi non fosse bastato il baffetto):
in schiene chine a produrre, produrre
smettendo di sognare, di pensare.

Nacqui al riparo da fucilazioni
e rastrellamenti, ebbi pure una casa
borghese, un bel giardino dove in pace
impazzire nei solitari sogni:
ebbi pane e molto più: gli studi
pagati fino alla laurea, poi
un lavoro, noioso ma un lavoro.

Mio padre due campi di prigionia,
la dieta di Kartoffeln, la fuga con l’amico
vero, coraggioso, dei tempi del paese,
i bagni nelle rogge fra le rane.

Anche per questo, io adesso oppormi
lo sento mio dovere. Un dovere morale.

Sparare al distanziamento sociale
e al riavviarsi del porco capitale:
spingere le persone ad abbracciarsi
bocca su bocca, a non credere ai nuovi
falsi profeti, a lavorare solo
quello che basta, a non fare carriera:
e fermarsi sul fiume a guardare
l’acqua che si fa d’oro nella sera.


Scritta nel 2020.