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Al solstizio, il manovratore si dimenticò di invertire la marcia e le giornate continuarono ad allungarsi. Passato qualche mese, ormai il sole del lunedì tramontava martedì mattina, trovandosi in compagnia nel cielo con quello del martedì, che era sorto prestissimo. Se la direzione non fosse mai più cambiata, presto anche tre, quattro, cinque giorni si sarebbero sovrapposti, con tre, quattro, cinque soli nel cielo. In tutta quella luce perenne, la luna non si vedeva più, benché continuasse, nascosta, i suoi giri misteriosi.
Al principio ci fu allarme. Gli scienziati disegnarono un avvenire apocalittico di fame e arsura: con il sole perenne – i soli, anzi – tutta la vegetazione sarebbe scomparsa, e con essa ogni forma di vita. Il comitato tecnico scientifico, per intanto, suggerì al governo l’obbligo di creme solari per tutta la popolazione, e la forte raccomandazione di coprire il viso con una mascherina. Gli industriali litigavano con i sindacati sulla ridefinizione degli orari di lavoro in quella perenne luminosità.
Con il tempo, le cose non parvero però andare così male. Per qualche misterioso motivo, la luce dei soli non si sommava, né il loro calore si accumulava: era sempre estate, ma un’estate nemmeno troppo torrida. Qualcuno sentiva la mancanza della notte, certo. Ma c’erano locali con spesse tende alle finestre per i nostalgici dell’oscuro, e quanto a dormire, se hai sonno dormi anche nel chiaro. Il biglietto d’ingresso a certe grotte turistiche aumentò di venti volte, perché il commercio è commercio.
Tutti quei soli in giro per il cielo non intimidivano affatto le nuvole, anzi. C’erano turbini di nubi, temporali, piogge torrenziali che presto presero un ritmo quasi periodico. All’alternanza fra giorno e notte si sostituì quella fra sereno e pioggia. Qualche specie si estinse, sì, ma niente di che: da miliardi di anni se ne erano estinte. Nel complesso, piante e animali si adattarono bene alla nuova situazione.
I vecchi dicevano che loro già sapevano da prima che non sarebbe stato un problema: «Non è che dieci candele facciano tanto diverso da una». I giovani progettavano imprese adatte a un mondo perennemente illuminato. Gli amanti, quando erano stanchi dei corpi in piena luce, chiudevano gli occhi e si annusavano. I terrapiattisti, pur non potendo dimostrare nulla, ebbero la loro piccola rivincita: se i soli dei giorni si sovrapponevano, tutto Copernico diventava fuffa.
Triscian però aveva nostalgia della luna, e anche del buio dei boschi in cui era stata abituata a inoltrarsi cauta, attenta agli inciampi e agli animali selvatici. Perciò si mise in cammino. Voleva trovare il manovratore e chiedergli di invertire la marcia, anche rimproverandolo: come aveva potuto, per la prima volta da quando il mondo era stato partorito, dimenticarsi di spingere la leva?
Dunque Triscian camminò per giorni e giorni, quei giorni che gli orologi, per scongiurare il pericolo che le persone non avessero più età, si ostinavano a misurare come sempre. Attraversò città via via più piccole, poi villaggi, poi case sparse fra montagne. Alla sorgente d’un fiume vide un’ampia caverna e intuì che il manovratore abitava là dentro.
Senza alcun timore, s’incamminò nel buio, tastando con i piedi il terreno roccioso. Gli occhi impiegarono molto tempo ad adattarsi. Vide, in fondo alla caverna, un fuoco che ardeva su un sasso, senza nessun combustibile a nutrirlo. Accanto al fuoco un ragazzo dormiva, nudo. Triscian notò che era molto bello: di certo era lui il modello, mai conosciuto da nessuno, che certi scultori antichi avevano ritratto nel marmo.
Sicura che fosse lui il manovratore, Triscian lo svegliò toccandogli una spalla e gli domandò: «Come hai potuto dimenticarti di spingere la leva del solstizio? Si muovono in cielo decine di soli, e io ho nostalgia della luna». Il ragazzo si volse a lei e rispose: «Non mi sono dimenticato. Da miliardi di anni vivo qui da solo, restando sempre ragazzo, con il compito d’invertire, due volte all’anno, l’andamento del tempo del giorno e della notte. La solitudine e la noia mi erano divenute insopportabili, e allora ho smesso di azionare la leva: l’ho fatto d’estate, perché amo la luce più che il buio. L’ho fatto perché succedesse qualcosa. L’ho fatto perché arrivassi tu qui».
Triscian sorrise e lo abbracciò: abbracciò quel corpo nudo che per millenni era stato solo pensato, sognato, disegnato, dipinto e scritto. Parve al ragazzo di cominciare a vivere, parve alla ragazza di avere per la prima volta la pelle, il sangue, le membra disegnabili, pensabili. Si amarono.
«Vengo via con te» – le disse, preso di felicità.
«Ma se verrai via di qui dovrai diventare adulto e poi invecchiare e morire» – gli disse, e soggiunse ridendo con gli occhi: «E ti dovrai vestire!»
«Farò tutto questo con te, vivremo insieme».
«Ma chi manovrerà la leva dei solstizi? Non tornerà la luna mai più?»
Il ragazzo si avvicinò alla grossa leva, che stava poco oltre il fuoco, e la spinse, facendola pendere verso il lato opposto. I giorni, all’istante, cominciarono ad accorciarsi.
Abbracciò di nuovo Triscian e le spiegò: «Il capo manderà un sostituto, per il tempo che resta fino alla fine. Niente è eterno, lo sai, nemmeno i soli e le stelle e le lune».
«Lo so. Ma perché non hai chiesto subito di essere sostituito?»
«Perché prima dovevi arrivare tu qui».
Triscian e il manovratore, di cui non sappiamo il nome, vissero amandosi per il tempo che vissero. I giorni pian piano tornarono all’antica altalena, e la luna ricomparve in cielo, a crescere e calare alla maniera di sempre.
E credo che oggi di quel piccolo incidente di percorso nessuno, ma proprio nessuno si ricordi più.
Scritto nel 2021.