Scrivevi: non sopporto la mascherina
– era quella del conte e dei draghi, sì, ma
non posso non vederci del più ampio:
avevi tolto così tante maschere al tuo corpo
da restare senza pelle, toccarti
era toccare nervi, sangue, vene:
e forse era illusoria l’epidermide
che accoglieva, ogni tanto, gli abbracci
come fossero veri.
Vorrei urlare ma ciurlano nel manico
gli strumenti, le frasi.
È tutto così vano e altisonante!
Per caricare un video su un social
devo cliccare crea, manco fossi
dio. Non si produce quasi niente di buono
ma si è tutti creatori, creatori di merda.
Come vorrei parlarti! Come mancano
le tue parole limpide, spietate
consolatrici come un temporale
che spezza un’oppressione – ma non ha
spezzato il peso delle tue catene:
ti sei dissolta, per fuggire, come
la nube dopo il dono della pioggia.
È tutto insopportabile. La gente
annuisce alla guerra, gli aguzzini
menano ai campi le anime non salve
nascoste in mascherine fluorescenti:
le sopportano, credono sia cielo:
hanno paura di svelarsi, muoiono
in longeve sbiadite anestesie.
Tu nata in giorni in cui la primavera
diventa estate ed è lunga la luce
hai rifiutato questa luce e l’estate
degli stupri e dei buoni consigli
dalle bocche deformi dei vecchi saputi.
Che fragore! Dal sabba infernale
di queste bolge al neon ti sei tuffata
in un silenzio oltremondano. Resto
qui a vacillare, respiro spiragli
incerti e rari al bordo di voragini
vacue, asfissianti. Ma già perdo il filo
di questa narrazione palliativa
su cui avresti molto da ridire
e che non so concludere: la chiusa
non sarà di mio pugno, apro la mano
e me la appoggio sul viso: nascosta
nel palmo, al riparo, in sogno ti ritrovo
con un odore – e tutto s’abbandona.
Scritta nel 2022.