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Allora, ecco, quello che sto per scrivere riguarda gli artisti, nel senso più ampio della parola, dalla narrativa alla musica, dalla pittura alla danza, dalla recitazione alla scultura, dalla poesia allo striptease, dal teatro alla giocoleria, dal cinema al rap, dall’ebanisteria alla canzone, dalla commedia alla mimica, dalla drammaturgia alla topiaria a tutte le altre cose il cui elenco è potenzialmente infinito.
È una faccenda difficile. Di solito scrivo di getto, con grande sventatezza, spinto da impulsi incontenibili – per le poesie è così sempre, ma lo è anche per la maggioranza delle prose.
Stavolta, invece, ci rimugino da un po’ di settimane. Quindi mi verrà pure scritto male, perché i testi su cui rimugino mi vengono più brutti di quelli che scaturiscono senza che io quasi me ne accorga. Sono fatto così, ognuno è diverso.
Ora faccio una premessa “autocritica” doverosa – anche perché se non me la facessi da solo mi verrebbe – giustamente – sparata contro a raffica da tutti. Ecco: la premessa è che per me è facile, sì. La mia arte è la poesia, che come da tradizione non mi ha mai fruttato il becco di un quattrino. Tradizione antichissima: già non era la “Commedia” a riempire di minestra il piatto dell’Alighieri, né i “Canti” offrivano la cena al Leopardi. Il poeta campa d’altro: qualcuno è ricco di famiglia, qualcuno è poeta-operaio o poeta-impiegato, molti (troppi) sono poeti docenti universitari (ah, l’accademia!) e altri vivono da barboni, semplicemente. Io sono stato un poeta-impiegato prima di diventare un poeta-pensionato. Bene.
Quindi se smetto di fare presentazioni del mio libro, letture di poesie, partecipazioni a convegni ed eventi vari, tale cessazione non mi arreca alcun danno economico, così come non mi ha mai arrecato alcun economico beneficio. Dunque, da quel punto di vista, mi è, come premettevo, facile.
Ma in altri rami del variegato mondo dell’arte c’è invece chi si sostenta – in parte o in tutto – del calcare un palco, del suonare uno strumento, del raccontare una storia, del danzare davanti a una platea e così via. Per loro “non farlo” diventa (anche) un problema di sopravvivenza materiale.
Allora, ecco, insomma. Fatta questa premessa, io – ora lo dico, sì, lo devo dire – francamente mi aspettavo che gli amici artisti, persone fantasiose, libere, sognanti, autonome, critiche, fuori dagli schemi, non si assoggettassero in così larga maggioranza al sopruso del green pass, alla violenta imposizione di un vaccino sperimentale su cui il potere racconta un sacco di panzane, alla discriminazione del loro pubblico stesso: tu puoi venire a vedermi/ascoltarmi/seguirmi, perché ti sottometti; tu no, perché la pensi diversamente. Amici artisti, possibile che non vi suoni orribile questa cosa? Convalidate il bollino del potere imposto al regno – per definizione – della libertà – l’arte, appunto.
Io lo trovo orribile. Finché le cose staranno così, non farò nessuna presentazione del libro, né lettura di poesie, né partecipazione a riunioni, convegni, insomma rifiuterò qualsiasi contesto dove ai partecipanti sia richiesta una (illegittimissima) certificazione delle loro scelte e della loro salute. Rifiuterò, punto e basta: nessuna scappatoia con il tampone quarantottore, sicuramente. Ok, ok, per me è facile – l’ho premesso, no?
Per chi d’arte vive (materialmente) è più difficile, lo capisco benissimo. Ma, ecco, se uno proprio non se la sente di rinunciare a fare il concerto o lo spettacolo, ecco, almeno una dissociazione, una dichiarazione da scrivere sulle locandine e da pronunciare solennemente all’inizio della serata: “sono addolorato dalla discriminazione a cui mi costringono, esprimo la mia solidarietà a chi è rimasto fuori perché dissente dalle scelte del governo e delle multinazionali”. Almeno questo, no?
Ecco, l’ho detto, amici artisti. Ora potete tranquillamente cancellarmi. Tanto, da questo mondo impazzito, mi sto già lentamente cancellando da solo, e quasi con un certo pacifico sollievo, in una sorta di serena naturale dissolvenza della fragile vita mortale. Ciao!
11 agosto 2021