Il portapenne che tenevi sul tuo tavolo
quando avevi un tuo tavolo a casa mia
quando stavamo insieme
è un barattolo di vetro di un succo di frutta
che ti piaceva, tolta l’etichetta
e messa, al posto, una tua fotografia.
Quando sei andata a stare altrove
l’hai lasciato da me. Ci sono dentro penne
nere, rosse, verdi, pennarelli,
un accendino, un rasoio per depilazione,
un tampax non usato… L’ho tenuto
così intatto, sperando in un ritorno
o in qualcosa, non so nemmeno cosa.
Dopo un anno di silenzio tre settimane fa
mi hai telefonato, parlato di cose
profonde o futili, m’hai confidato
ancora altri pensieri, ma hai ribadito
che non volevi vedere né me né nessuno.
Ho sperato che fosse un aprirsi,
m’hai detto dell’iscrizione all’università,
uno spiraglio, una possibilità.
Ora capisco che era un saluto:
prima di andare via, concedermi di udire
ancora la tua voce. Hai parlato
della promessa di non perderci mai,
hai detto che io non ricordavo bene:
tu non me l’avevi proprio fatta,
solo accennata come possibilità.
Hai passato un anno in totale solitudine:
neanche i giri ai tavolini dei bar
a parlare a sconosciuti, ti piaceva.
Ma non daremo la colpa al Governo
né ti chiedo perché non m’hai chiamato
sull’orlo degli abissi, in minuti
sarei stato da te. Il perché lo intuisco
con dolore e rispetto. Il dolore va bene:
non desidero che passi, sei tu.
Ora accanto al portapenne ho messo qualcosa
che mai avrei voluto, mai vedere:
l’ho preso ieri in chiesa nel tuo piccolo paese
nell’estremo saluto: se davvero ci credessero
non direbbero estremo, io che non credo in nulla
continuo a salutarti: senza nessuna fede
penso spazi dove poterci sorridere
ancora, dove amare non sia l’intricato
groviglio che è qui: dove l’amore basti.
Ciao Cri. Ora, non soffrire più.
Scritta nel 2021.
