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Leggo pagine. Deleuze, Severino
persino Pessoa, che ho sempre amato, mi annoia:
mi sento oltre, o prima, in uno spazio
enorme e trascurabile, muto. È lo spazio
dove dovrei, lo sento, udire e dire
ma non odo né dico. Una pochezza
mi svergogna, proprio quando sarebbe
il momento: la luce del disegno
liberato da molti, non so se tutti, i filtri
che per misericordia gli uomini confondono
m’oscura in un attonito silenzio.

Non ho varcato come un condottiero
il nero mare, a perdita di riva
e d’orizzonte: sono andato alla deriva
goffamente, vilmente – ma non ritornerei
nemmeno se potessi nella rada
da cui amore mi condusse via.

Al ristorante cinese un giovialone
sentendo che chiedevo al cameriere
un tavolo da solo, m’ha esclamato:
“Ma no! Prendi una bambola piuttosto
e mettila lì sulla sedia, perché
niente è più triste che mangiare da soli!”
Forse aveva bevuto. Gli ho risposto
che a me non dispiace mangiare da solo:
ma a voce bassa, perché non capisse.

Racconto magari questi aneddoti, leggo
qualche pagina, guardo un video, piccole
dosi d’umile piacere passatempo:
poi mi rannicchio nel silenzio, mi adatto
a non saper rispondere al maestro
che mi chiede del viaggio, di descrivere
le acque inesplorate. Non lo so, mi perdoni:
non sono preparato, mi è successo
ma non sono all’altezza. Però sento
qui nel buio qualcosa che se fosse
sarebbe voce o sorriso o profumo
tuo accogliente, tuo buono, forse è qui
dove divento nulla, che ti trovo.


Scritta nel 2023.

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