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Mi hanno detto: il corpo intatto. Non sembrava
lo sfacelo d’un volo da quindici metri:
intatto il viso, e ancora respiravi:
ti sono servite delle ore per morire:
non si voleva arrendere il tuo cuore.

E con questo? Perché scrivo questo
mentre è passato un volo di rondoni
davanti alla finestra e il cielo è tumido
di nubi grigie? E perché dei rondoni
e delle nubi scrivo? Che esercizio è?

Forse è l’esercizio di un bambino
colpevole e ferito che ripete
mille volte la frase sul quaderno:
non, come crede il maestro, per estinguere
la punizione: no, per distrarsi.

Vedere qualcuno? Non ho niente da mettermi.
A pochi posso mostrarmi così.
Recitare non so. Mi distraggo
con i miei giochi, con le mie ossessioni
oppure resto fermo, imbambolato.

Il tuo corpo è sempre stato intatto.
«Quando un viso ha bellezza di cielo…»
La poesia che scrissi che comincia
con questo verso, i primi tempi con te:
è profezia la poesia, ma inutile.

Mi distraggo. Talvolta in un trasogno
t’incontro sorridente, mi tocchi
la spalla con la mano: stai tranquillo
dici – ma vola l’ombra del colpo, vacillo,
m’appoggio a uno schienale, a un mancorrente.

Dai, non è niente. Sono problemi miei.
Tu piuttosto, come stai? Dove sei?


Scritta nel 2021.