Che meraviglia sono i treni e la notte e il vento
Cristina, i vagoni merci carichi di cereali
a cigolare sul primo binario, in attesa, eppure
tutto questo non basta, nemmeno più conta.
Non so paradisi senz’erba e ferrovie, traversine
pregne di piscio, creofenina, radici:
non so luoghi vivi d’una vita che non sia
questa che vivo, che viviamo, che hai vissuto:
coglionate i nirvana, la perfezione immobile
dei teologi di tutti gli orizzonti. Sono in treno
stasera e manchi, manchi, ti vedo arrampicarti
sugli alberi o rubare una maglia al mercato
o ridere, piangere, correre: ma queste sono cose
di qui, sono le cose che scompaiono al corpo
quando la morte lo ferma e lo scioglie, la morte
è dunque davvero la fine di tutto, la sua cappa
di maga nera, ciò che è ritrascina nel nulla?
Non lo sopporto. Non di tutto! Sia la fine soltanto
di ciò che so pensare, immaginare! Merda!
Sia la fine di me solamente!
Contemplo gli occhi rotondi degli scambi
delle rotaie, Cristina, vorrei che fossi qui
tu dentro il limite in cui ci abbracciavamo
ma invece oltre, fuori c’è, ci sarà… che…
Queste poesie mi abortiscono tutte:
ne sono contento, è anchilosato il mio utero,
il seme caduto è d’un gene che trascende
ogni mia gestazione, tutto esplode più grande
e se muoio di parto è la morte migliore:
muoio di cose a me molto maggiori,
innascibili, immense: poterti trovare
in sagome di treni, dietro il vento.
Scritta nel 2021.
Bella, fa male di nostalgia.
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