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Penso a volte che la schizofrenia
– mia visione ignorante, di poesia –
sia condizione di chi non combacia
(non sa, non vuole, non si sente adeguato
non capisce, si ribella, si annulla)
alla schizofrenia del mondo.

La schizofrenia del mondo:
quasi tutti passano quasi tutta la vita
a fare cose che non desiderano fare
e si raccontano, su questo, storie eroiche.
L’epica salva dalla verità.

Inaridisce il giardino interiore
ma anche questo è un bene, è funzionale:
il vigore di piante incontrollabili
potrebbe premere, come l’erba ai marciapiedi
sconnettere le cementine
dell’impiantito esteriore, lustrato
a rispecchiare senza contrazioni
rassicuranti scene familiari.

Però accade che prema: cominciano i crolli
preceduti da crepe, incrinature
impercepite benché percepibili.

Inghiottito in macerie
lo spazio stringe, stringe dappertutto:
non c’è qui luogo nemmeno al dolore.
Dove esco? Chi sono? Dove vado?
Chi mi somiglia in questi scorci oscuri?

È angoscia il lavoro ed è angoscia il non lavoro.
È angoscia il legame ed è angoscia il non legame.
È angoscia annuire ed è angoscia negare.
È angoscia l’amore ed è angoscia il disamore.
Hai visto ciò che non si può vedere:
è colpa tua! E non ti servirà
fuggire nei boschi, in riva ai fiumi, la colpa
t’insegue nelle falde e nelle vene:
persino la bellezza, ora spogliata
del casto paralume che l’attenua
nelle paci domestiche, ti brucia.
Non ti bastò la calda fioca luce
che per fiabe e silenzi perdona il mancare…


Sono già stanco di questa teoresi.
Nella prassi racconto storie anch’io
per far diga al dolore, ricavare
tra l’erta e la fiumana un mio vallivo
di fiori transitori, attracco d’anime
immaginarie. Poi cede, si chiude
questo goffo teatrino schizotipico:
spero ci sia un’uscita, qualcosa, un piazzale
o un giardino, panchine, prati, tu.


Scritta nel 2022.

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