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Carlo Molinaro

~ poesie e altre cose

Carlo Molinaro

Archivi tag: riflessioni

Luna piena

15 martedì Feb 2022

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, riflessioni, scenari

Ma è già piena la luna? M’ha sorpreso
mentre la sorprendevo appena sorta
verso il tramonto, sul parco Colletta:
e l’ho fotografata, vizio mio.
Allora sono già dodici lune.

È vero, il ciclo della luna dura
meno del mese, perciò m’ha sorpreso.

Dodici lune fa, verso la sera
ero tranquillo, invece avrei dovuto
correre, urlare, sfondare la tua porta
a pugni e calci, fare qualcosa
che non so, perché quella notte
non ti chiamasse a sé la luna piena
riflessa sull’abisso, bianco spettro
nel pozzo del cortile. Dove sei?

Poco in là, gli studenti dell’Artistico
scaricano da un furgone attrezzatura
musicale: la scuola oggi è occupata
e di canti e di giochi sarà viva.

Tu l’hai fatto l’Artistico, poi
l’Accademia, ottimi voti, lasciata
nell’ultimo anno, dicevi per motivi
di famiglia, ma forse era già che
ti vietavi di nascere, fiorire.

Vieni a ballare coi ragazzi! Mostra
fra le tue dita sottili la luna
così che s’accorgano e allarghino gli occhi.
Fai ciò che hai sempre fatto: regala
lievi cose preziose
senza essere vista.


Scritta nel 2022.

Foto scattata alle cinque e mezza della sera del 15 febbraio 2022 al Parco Colletta a Torino.

Confusione, pioggia, 10 novembre 2021

13 sabato Nov 2021

Posted by carlomolinaro in prosa

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riflessioni

C’è una fase in cui il bambino certamente vuole che la madre sia sempre presente, però anche assente, vuole una madre con un interruttore, da accendere in caso di bisogno, per le carezze, per le rassicurazioni, da spegnere se critica indaga condiziona pone limiti – ma, anche spenta, che non si allontani. Dunque percepire l’altro come una cosa garantita di cui usufruire e poi riporre, e non come una persona con cui interagire alla pari, è la condizione di partenza, non una degenerazione successiva.

Condizione di partenza dalla quale ci si evolve, se ci si evolve, ma in che modo avviene questa evoluzione? Qui entrano in gioco le grandi parole fumose, quelle che nessuno ha mai davvero definito (“amore”, “sentimento”) e usare parole fumose è un buono stratagemma, comprensibile, per confondere il disegno intollerabile che inciso sul fondo rimane. Il fumo bene modellato può arrivare a creare un mondo nuovo sovrapposto, così denso da poterlo chiamare (inquietamente) reale.

Mi ha sempre colpito che a evolversi nella storia della lingua fino a indicare l’essere umano nella sua completezza sia stata la parola “persona”, una parola che nasce con il significato di “maschera”, il Calonghi dice dall’etrusco “φersu” ma è forte l’accostamento al verbo latino “personare” (intensivo di “sonare”) che vuol dire suonare forte, risuonare, amplificare il suono: nell’antichità la maschera in teatro serviva a coprire il volto ma anche (mediante una bene studiata forma e apertura) ad alzare, amplificare la voce, non c’erano i microfoni con le sofisticate apparecchiature elettriche di oggi.

Persona, copre il volto alza la voce.

Persona, copre il volto alza la voce.

Persona, copre il volto alza la voce.

Come ci si evolve dalla condizione primaria in cui l’altro è soltanto bisogno e paura, perché ti dà vita (ne hai bisogno) con una carezza ma ti uccide (ne hai paura) con un divieto, un limite? Ci si evolve davvero o è tutta una finzione, teatro, diventiamo persone cioè maschere, copriamo il volto (che incessantemente rivela) e alziamo la voce (che sa mentire)?

Quella sera ti chiudesti in camera stanca e addolorata, luce spenta e silenzio assoluto, per ore, sapevo che entrando o anche solo bussando ti avrei disturbata e infuriata, “lasciami stare”, così resistetti all’ansia e all’apprensione, me lo imposi, ma dopo ore spalancasti tu la porta con violenza: “mi lasci morire qui? non mi porti cibo buono e nutriente?”

Un frivolo direbbe: bambina capricciosa; invece era una tragedia ma forse è la stessa cosa, nella delicata e incerta (finta, reale) evoluzione possono saltare dei passaggi, qualcosa non si cementa, non si adatta, serpeggia un’inconscia pretesa (“pre-tesa”) di crescere in non-bambina senza indossare la persona, la pelle brucia, la pelle nemmeno c’è, come può la carne viva nella ferita illimitata ricevere carezze senza un urlo di dolore?

Quale orecchio può raccogliere la voce fioca che nessuna maschera articola né amplifica, la voce di prima dell’artificio del linguaggio, lamento lieve d’animale, fruscìo di foglie in una brezza impercettibile?

Se non hai pelle a ricevere carezze né parole da specchiare a conforto, in cambio di che cosa dovresti accettare i limiti imposti dall’architettura della società? Non compensati, essi restano la violenza che sono.

Confusione. Non c’è più fumo da modellare, una pioggia spietata fa brillare macerie nitide, reticoli spinati, inghiottitoi, dove sei?

Un filo strecciato

04 giovedì Nov 2021

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore, bellezza, cose di dentro, relazioni, riflessioni, scenari

tenere un filo strecciato dagli altri per seguirlo
bei colori d’autunno stamattina ieri pioggia
quelli che mi dicono che la tua malattia era insanabile
lo fanno per guarire me dai miei sensi di colpa
ma non è questo, non ero il tuo psichiatra
sulla schizofrenia fiumi d’inchiostro
un altro punto di vista più interno condividevamo
certo ti ho raccontato quel sogno a quattro anni
l’incubo in cui mia nonna mi tagliava in due
all’altezza della cintola con una sega da taglialegna
(tuo fratello taglialegna, il più grande, dicevi)
e mia madre guardava e approvava poi la nonna
“non riesco, c’è l’osso” non riusciva a dividermi
in due, resisteva la colonna vertebrale
mi svegliai terrorizzato ma rimasi nel letto in silenzio
non raccontai nulla a nessuno
a te il taglio arrivò a compimento? mia madre mia nonna
tua madre tua nonna le chiare foreste
le selve oscure sono poi lo stesso bosco
in luce diversa, può darsi
tenere un filo strecciato dagli altri per seguirlo
non ti convinsero a prendere farmaci adeguati
meglio la morte che una vita sedata
meglio l’anima salvata
se tutti applicassero, ahahah, ora sono io che rido
nelle ossa dilaniate, se tutti applicassero
quel principio, meglio morti che sedati
suicidio di massa, suicidio di massa!
quanti vedo già morti per ancora non morire
nei tuoi incubi ti davano merda, cibo infetto
distruggevano ogni cosa che facevi
ti strappavano, tu l’erbaccia, era incubo o realtà?
il dolore toglie nitidezza al confine
tenere un filo strecciato dagli altri per seguirlo
è difficile o impossibile, mi confondo
eri stata tagliata in minuscoli pezzetti
e che il vento li raccolga e che il regno dei ragni
cucia la pelle e la luna tessa i capelli e il viso
è solo una canzone di De Andrè
(forse ora il polline di Dio, di Dio il sorriso)
cercavo di stare attento io a non cucirti addosso
vesti improprie, miei sogni, eri bellissima
nel cappotto grigio al fiume o nuda sul letto
o sul limite del pianto davanti alla stazione
o abbracciata nel bosco o in attesa del bus
in corso Belgio, eri bellissima sempre
anche quando t’infuriavi eri bellissima
nei miei occhi ma i miei occhi
ti vedevano intera, innamorati componevano
ciò che invece restava non composto
le tue ferite sarebbero guarite, speravo
e ne abbiamo cercati di dottori della psiche
anche costosi, ma con nessuno è partito
il percorso di salvezza – era possibile?
tenere un filo strecciato dagli altri per seguirlo
ora non riesco, due anni fa eravamo al mare
di novembre, mi chiedevi cibo buono
io non so cucinare
ti guardavo spesso con sconsolata impotenza
però anche speranza e invece adesso, adesso…
tra bambini feriti tagliati a metà
ci si capisce ma non basta, il tuo sguardo
triste mi rimproverava di non essere un padre
che con autorevole amorevolezza ti guidasse
a comporre te stessa nel tuo modo (non l’altrui)
a riordinare ciò che s’era scompigliato, pulire
ciò che mani sporche avevano sporcato
e gioire con te della tua lucentezza
io solo un poco meno spezzato di te
(“non riesco, c’è l’osso”)
stupefatto da sogni da poesie illusioni
non potevo: “i tuoi quadretti, le tue
visioni idilliache… non mi vedi?” mi sgridavi
aguzzavo la vista ma continuavo a vedere
come vedono i bambini, in un misto d’incanto
com’eri bella e preziosa e la tua lucentezza
emergeva dai gorghi, le tue rare poesie
più belle delle mie, scrivevi bene
più chiara che tanti scrittori di successo
ma diosanto questo mondo è un tritatutto
schiaccia nobili destrieri, figuriamoci una farfalla
ferita che muove piano, debole, le ali
intessute di fratture, sottili, spolverate
d’immense meraviglie indecifrabili
tenere un filo strecciato dagli altri per seguirlo
ho avuto il dono di vederti ma vorrei
che tutto esplodesse, per lo spreco e il sopruso
per lo schifo, la merda, il cibo infetto
avvelenata soffocata schiacciata
sì, c’era in te una malattia della psiche
e troppa, troppa, troppa sofferenza
che non riuscivi più a controllare
sulla schizofrenia fiumi d’inchiostro
ma in uno sguardo più ampio, dallo spazio
in cui ora mi concedo di sognarti
(intera, lieta di tutta te stessa)
forse appare che al mondo i malati
sono i sani, i compatti, è chi come niente fosse
avvelenato soffocato schiacciato
ridacchia, spettegola, fa la coda al mercato
non t’ho salvata mentre tu mi hai salvato
c’è un bel sole, stamattina, dove sei?


Scritta nel 2021.

Le disconnessure

22 giovedì Lug 2021

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore, riflessioni, scenari

«io so chi sono, tu no» mi hai detto
tre settimane prima di morire
e già altre volte avevi rimarcato
quanto fosse impossibile per me
vederti, saperti

forse era impossibile anche a te
nel mosaico divelto, tra i frammenti
le disconnessure sanguinavano
le ricostruzioni rovinavano
e tutto vacillava

scoprire chi sei, conoscere te stesso
la questione antichissima
γνῶθι σαυτόν
mi sembra a volte che il problema posto
sia inadeguato, sia psicologia
euclidea, in qualche modo superabile:
psicologia tolemaica, con un centro
da ridiscutere

la scienza ha fatto passi da gigante
ma dentro noi s’è poco camminato
nessun Riemann, nessun Galileo
ha rivoluzionato:
Eschilo e Sofocle ancora descrivono
quasi perfettamente ciò che siamo

quell’io da scoprire è forse un principio
d’autorità, è qualcosa d’imposto
dagli avi? dagli dei? da un ineffabile
potere che s’è generato in sé
per scelta di nessuno?
è indefinito indimostrato assioma?

senza un io solido è penoso vivere
sì, ma
l’impulso, l’individuo, il collettivo…
di certo non va bene un io qualsiasi,
un io di colorata fantasia:
no, è richiesta una validazione
da un noi che ci sta dentro ma che spesso
è storto in ghirigori, in sabotaggi
e non c’è spazio, non c’è libertà
tu lo sai, che per lei vita rifiuti

per lei vita rifiuti

a prescindere da questo vaneggiare
su psichiatrie non ancora pensabili
credo – per quel che vale –
che
se tu ti fossi vista veramente
– come un cuore che è messo in piena luce
nell’intervento aperto
per l’occhio e lo strumento del chirurgo –
tu ti saresti assolta e soprattutto
ti sarebbe bastata la tua assoluzione

ecco, a me ora non basta la mia
ho bisogno di te, tu dove sei?


Scritta nel 2021.

Questi poeti

20 martedì Lug 2021

Posted by carlomolinaro in poesie

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riflessioni, scenari

Ci sono uomini che raccolgono
nidi caduti o piccoli uccelli
per provare a salvare debolissime
vite vive, s’innamorano di donne
le cui vite non possono salvare
e scrivono, senza nessun programma scrivono
forse per dare voce a cose che non parlano
o non si vedono o che nemmeno esistono,
impresa inutile oltre che impossibile.

Non sono meglio né peggio, fra loro
spesso non si conoscono, altre volte
sono amici ma con difficoltà
perché tutto è difficile, perché
assomigliarsi non è che un lato incerto
di sensazioni variabili, vaghe.

Hanno rinunciato, questo sì, al compromesso
di chi rallenta i sensi e l’intelletto
per adattarsi a celle di sistema
in cui raggranellare quattro chicchi
di fatica e certezza. Spesso prendono
ansiolitici, sono esposti al barcollare
delle luci, dei suoni. Ma niente
di eroico né sdegnoso: è per bisogno
che sono ciò che sono, non saprebbero
questi poeti fare in altro modo.


Scritta nel 2021.

Contra securitatem

09 venerdì Lug 2021

Posted by carlomolinaro in prosa

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riflessioni

Ci sono alcuni, nel mondo, che possono vivere solo in una camera asettica sterile, a causa di patologie da cui sono affetti. È molto triste, è una vita da reclusi, con pochissime uscite complicatissime. È una disgrazia, una delle peggiori. È una disgrazia, una fra le tante che ci possono colpire: un cancro incurabile, un camionista che sbanda e ci schiaccia, la perdita di una persona amata, e innumerevoli altre.

Se il mondo intero venisse sterilizzato e reso asettico, questi alcuni potrebbero vivere più liberamente: muoversi, andare dappertutto, godersi un giorno al mare. Non sarebbero più discriminati. Quindi che cosa bella e giusta e corretta e solidale sarebbe far diventare l’intero pianeta asettico e sterile!

Secondo me c’è qualcuno che lo pensa veramente, che pensa che sarebbe una cosa bella e giusta e corretta e solidale. Sì, avremmo un mondo morto, un mondo camera d’ospedale, ma che importa? Valgono molto di più la solidale correttezza, la tutela, l’uguaglianza!

Ecco, è per spiegare il mio dissenso verso chi dice che devi vaccinarti contro il morbillo perché di morbillo alcuni muoiono, e fra questi alcuni che muoiono ce ne sono alcuni che non possono vaccinarsi perché immunodepressi, e quindi devi vaccinarti tu per salvare loro, anche se per te stesso non lo faresti. Se non lo fai, sei un incosciente, un egoista e addirittura un assassino.

Apparentemente il ragionamento fila, ma contiene una fallacia logica, un pericolo immenso, perché diventa applicabile a qualsiasi cosa, fino ad arrivare davvero alla trasformazione del mondo in un padiglione d’ospedale, dove per salvaguardare un’infinita interminabile varietà di “alcuni” si trasforma in merda la vita di “tutti” – compresi, paradossalmente ma ovviamente, quegli “alcuni”.

Ci si vaccinerà pure contro l’orticaria perché qualcuno – sicuramente – ne può morire. Ci si vaccinerà così tanto e contro così tante malattie da distruggere definitivamente il sistema immunitario naturale, sostituendolo con la tutela dall’alto di un sistema sanitario onnipresente e onnipotente. Già siamo abbastanza avanti su questo cammino.

Al di fuori dell’ambito strettamente medico, si metteranno tute da astronauti ai bambini per farli andare in bicicletta, perché potrebbero cadendo rompersi, oltre che la testa, la schiena, un braccio, una gamba… Tutto deve essere in sicurezza. In bicicletta, ma poi anche a piedi, non si sa mai. E non solo i bambini. Si uscirà solo corazzati dentro scafandri. E poi non solo per uscire, anche in casa possono succedere incidenti: scafandro sempre.

Si chiuderanno tutte le piccole attività di ristorazione, perché chissà che malattie possono trasmettere i pizzaioli, i cuochi, i baristi. Meglio ingerire solo roba prodotta in atmosfera protetta dalle multinazionali. Ma poi anche gli altri negozi: una scarpa toccata con le mani da una commessa, e magari addirittura fatta provare ad altri clienti? Orrore! Meglio scarpe confezionate da grandi fabbriche in contenitori sigillati sterilizzati.

Potrei continuare con decine di altri esempi, ma penso che chi è in grado di capire abbia capito, e sono stanco. Quello che molti sembrano non capire più (ed è grave) è che nascere è una condanna a morte che nessuno può evitare, una sorella da la quale nullu homo vivente pò scappare. Capisco che non piaccia, neanche a me piace, ma scagliarcisi contro con moderno delirio d’onnipotenza non fa che aggravare e anticipare la pena.

Credo che ci stiamo mettendo su una strada d’inferno. Lastricata di buone intenzioni, questo lo si sa da secoli.


9 luglio 2021

Statuto-Statuto

19 giovedì Dic 2019

Posted by carlomolinaro in poesie

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relazioni, riflessioni, scenari

FOTOPONOT

 

Esco di casa perché sì. Decido
di non prendere nemmeno la borsa.
Metto in tasca portafoglio e telefono.
Così mi riposo la spalla:
pesa, talvolta, la tracolla.
Vado in piazza Statuto.
Penso: magari un dolce da McDonald.
Non è male quella specie di gelato.
Ma decido di no. Vedo un dieci
al capolinea. Sono le dieci e mezza
della sera del diciotto dicembre.
Il dieci ha un percorso che a me pare triste:
vialoni corsoni questura Crocetta.
Ma mi dico: per cambiare!
Lo prendo, poi decido dove scendo.
Passo in piazza Diciotto Dicembre.
Mi stupisco che non sia piena di danze
per il suo onomastico. Viaggio oltre.
Decido all’improvviso di scendere
in corso Stati Uniti. Lo percorro.
Decido di passare al Polski Kot.
Magari è aperto. Infatti è aperto.
Alessandro mi saluta, altri stanno
in disparte. Alessandro mi dice
che mi trova un po’ giù, non so, poi
mi chiede come stanno i figli, i nipoti.
E che potrebbe fare? È gentile.
Mi piace, mi offre un caffè, sto un po’
da solo a un tavolino a leggere
un libro preso da un cesto: un poeta
russo parla di entropia e biciclette
e naturalmente di ragazze. Bevo
il caffè, poi che fare? Andare.
C’è, vicino, il capolinea dell’undici:
altro bus che poco frequento.
Lo prendo con l’idea di scendere
alla stazione Dora, piazza Baldissera.
È deserto. Vado. A Porta Nuova vedo
un taxi che è stato investito da un quattro.
Ci sono i vigili e il carro attrezzi, che botto.
Poi l’undici passa per il centro:
via Venti Settembre, Porta Palazzo.
Non è che uno esce di casa e trova amici.
Queste cose si costruiscono lentamente:
in genere prima è come stanno i nipoti,
è roba formale. O forse è mia colpa
mia grandissima colpa
che il mio problema non sia di nipoti
ma ragazze, malintesi d’amore
e altre cose di questo tenore. I
n centro
l‘undici si riempie. Potrei scendere in centro:
dalla stazione Dora a casa come torno?
Non ho voglia del centro. Ho voglia
di periferia. Un amico mi consigliava
oggi con messaggi su Whatsapp

di cercare delle donne più plausibili.
Se ho capito. Mah. Dove vanno
tutti questi passeggeri dell’undici?
Lo sanno? Io lo so dove vado: da nessuna parte.
Lo so di preciso. Donne plausibili. Ma
forse non ho più stimoli a storie reali.
I malevoli dicono che mai io ne ho avuti:
ma questo è falso. Io agogno la realtà,
adoro la realtà sopra ogni cosa.
Potrei scendere a Porta Palazzo.
No, vado fino alla stazione Dora.
Di lì poi prendo un quarantasei o quarantanove
o vado a piedi o con una Mobike: ci sono
nella vita così tante possibilità!
Ma storie reali forse non ne voglio più:
sono un vecchio stanco, sono
il deserto in cui grida la mia voce.
Certo sull’undici una ragazza c’è:
con gambe velate sotto un paltoncino.
Però non alzo nemmeno lo sguardo,
resto così con soltanto le gambe,
tanto non credo vorrebbe sposarmi.
Non è che esci e trovi lì le cose.
Ma costruire, arzigogolare
m‘ha sempre dato noia. La sera di pioggia
è bella ed esiste senza tanti complimenti.
E io non mi lamento. Mi godo
il viaggio sull’undici dopo il caffè
offerto da Alessandro, che mi piace:
e qualche volta qualcosa si è detto
di più diretto, ma chissà se vogliamo
davvero dire del profondo, dove
nessuna soluzione esiste mai.
Arrivo a mezzanotte in piazza Baldissera.
Dovrebbe passare ancora un quarantasei
o quarantanove. Due o tre volte mi sono
spaventato stasera d’aver perso la borsa.
Non sono abituato a stare senza, mi devo
abituare a questa e ad altre cose.
Ma di solito la prendo per avere
l‘acqua, la macchina fotografica, i guanti
da bici che mi ha regalato una ragazza.
E che altro? La batteria di riserva
del telefono, l’En, della carta, delle biro.
Ma stasera va bene così senza.
Mi riposo la spalla e il nuovo montgomery
verde comprato usato ha grandi tasche
ed è come se me l’avesse regalato
un’amata donna, perché me l’ha indicato
su una gruccia, al mercato.
Chi mette i soldi non fa differenza.
Guardo scorrere automobili
in corso Principe Oddone, un’insegna Max Home
verde bianca rossa, chi sarà questo Max?
Non m’incuriosisce. Sia chi vuole. Non tutto
m’incuriosisce. Un lontano palazzo
altissimo svetta dal quartiere parco Dora.
Ha una, due, tre, quattro finestre illuminate:
su forse cento o più, che bassa percentuale.
In una lampeggia un albero di Natale.
Son qui che giro nella notte. Non è male.
Passa un nero ciclista del Glovo.
Bisogna essere disabili forte
per farsi portare il cibo in casa a pagamento
mentre è così bello stare fuori.
Il quarantasei, l’ultimo, arriva.
M
i riporta in piazza Statuto, chiudo il cerchio.
A che ora chiude McDonald?

Quasi quasi quella specie di gelato
me lo prendo, se è aperto. Ci vuole
qualcosa di dolce. È mezzanotte e mezza.
Vediamo. C’è! Mi faccio un McFlurry

al bacioperugina.


Scritta nel 2019.

Qui nella notte invernale

16 lunedì Dic 2019

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, riflessioni

qui nella notte invernale
non ci sono ragioni per dormire
né per fare altro

si sta, così

la casa è troppo piena di cose
due terzi dei libri li potrei regalare
senza neanche accorgermi
e i rimanenti, poi, anche

nella testa invece
c’è poco di concreto
ci sono fantasmi, sogni

perché ricordo così poco?
a tredici anni ero dai preti
in colonia in montagna di luglio
e avevo il permesso di andare a piedi
fino al paese dopo, cinque o sei chilometri
da solo, a trovare mia sorella
che era in una specie d’altra colonia
e di sicuro ci andavo spesso
per camminare, fuggire la noia

so che questo accadeva
però non lo ricordo
non ricordo
né edifici né strade né paesaggi
né compagni di colonia
né mia sorella

ricordo che mangiavo doppia minestra
a volte tripla
perché agli altri a tavola
faceva schifo
io mangiavo anche la loro
penso non fosse cattiva

ma mi rendo conto che era
una cosa ideologica
facevo quello che mangia la minestra
avevo deciso così
per distinguermi dai bimbi schizzinosi
per essere dell’altro
per essere qualcosa

ricordo solo le cose che inventai
(assomiglia a
«non amo che le rose che non colsi»?
non è detto, si diffidi
di facili collegamenti)

qui nella notte invernale
qui nell’autunno della vita
non ci sono ragioni per dormire
né per fare altro

pure le parole sono stanche
il tempo si sfilaccia
«il tempo si sfilaccia»
è banalissimo
devo fare meglio, dire meglio
perché mi amiate
o madri mie che non vedete un cazzo

uhm
ma no
il tempo si sfilaccia
non dormo più di notte
non è propriamente insonnia
è che non ho voglia
di dormire, né di fare altro

forse una cosa la vorrei fare
planare
una volta giù dal mio sopra le righe
entrare nel pentagramma
accomodarmi sul do del terzo spazio
in chiave di violino…

no: sarebbe comunque soltanto un guardare
non desidero planare
l’ho detto così per captare
benevolenza, ma mi sono accorto

ho studiato musica, non ho suonato
ho studiato lingue, non ho parlato
ho studiato amore, non

(sono troppo vigliacco
per completare la terzina:
mi lascio spiragli,
assoluzioni, abbagli)

qui nella notte invernale
non ci sono ragioni per dormire
né per fare altro

l’abbraccio di una donna nel letto
lo prenderei, anche se ormai
so che è una rapina
troverei espedienti
per consentire, addolcire

forse è meglio di no:
non so se per mancanza di talento
o d’esercizio, di scuola
non so svestirmi, lasciar mescolare
disordinati, incongrui
(ma sensibili)
i corpi e l’anima
non so svestirmi
di tutti i miei sogni:
vivere

qui nella notte invernale
non ci sono ragioni per dormire
né per fare altro

forse metto su il giaccone
vado al Carrefour aperto ventiquattr’ore
compro una tavoletta
di cioccolato al latte

ma perché adesso sento le voci
«che schifo, è tanto meglio il fondente»
«latte… non vorresti esser vegano?
ma lo sai quanto soffrono le vacche?»

andate via!
restate con me
forse in brevi silenzi nel buio
il cieco e sordo e muto
può sentire le luci del cuore
può vedere, cantare
tenersi nelle braccia

metto su il giaccone
una tavoletta
di cioccolato al latte
un pochino consola
e il supermercato di notte
è scenario non privo di fascino
per uno sketch d’una decina di minuti

tanto
qui nella notte invernale
non ci sono ragioni per dormire
né per fare altro


Scritta nel 2019.

Della morte

15 martedì Ott 2019

Posted by carlomolinaro in poesie

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amicizia, morte, riflessioni, scenari

siamo tutti nel braccio della morte
e nella gamba, nel petto, nel culo
della morte – non c’è santi – ci fosse
ancora qualche frantume di piacere,
d’ebbri baci, qualcosa che per mia
faciloneria ho chiamato l’amore
e non so cosa sia, però lo voglio

più il tempo stringe, paradossalmente
più nulla sembra urgente:
finisce e non si rifinisce la vita,
non c’è da lambiccarsi per trovare
un finale a effetto, come in coda a un sonetto:
è un banale cessare, uno smettere
di essere
di

perché ci ossessiona, la personifichiamo
ma è l’esito del parto – non ci sono
personificazioni della nascita: magari
una signora di colorate vesti
in larghi gesti il grano a seminare:
chi lo semina è per poi falciare

c’è da fare nel frattempo, trovare
i sensi, le armonie, aiutare
a trovare, curare – si racconta
che nel braccio della morte
giochino con passione ai dadi
o alle carte, che nascano amicizie
forti, finali, dell’odio talvolta


Scritta nel 2019.

Ansia

18 domenica Ago 2019

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, riflessioni

Uno sgabello rosa sul terrazzo,
nuvole in cielo più chiare, più buie.
Dagli alloggi vicini voci umane
più alte, più basse, cordiali o litigiose.
Un raggio di sole si specchia in un vetro
e nell’inclinazione già presento
l’aprirsi dell’oscuro della sera.

Le abbiamo dato il nome, ansia,
ma non è nostra invenzione: il coniglio
selvatico nel prato, insidiato
dalla volpe, l’albero che ignora
se verrà acqua per le sue radici,
vivono in ansia sempre, se vogliamo
usare il nostro elaborato lessico.

Spesso pure il mutare del disegno
delle nubi mi agita, il vento
che cambia direzione. L’attesa
è, quasi più che delle cose, del rimpianto.
Eppure questo scorrere è la vita,
tutta la vita a cui siamo attaccati:
siamo un’intrinseca contraddizione.


Scritta nel 2019.

Gelati

31 mercoledì Lug 2019

Posted by carlomolinaro in poesie

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infanzia, riflessioni

Su una panchina in un giardinetto
ad Acqui Terme mangio una coppetta
di gelato, presa da “Crema e frutto”,
via Monteverde quarantadue.

Riesco a sporcare di gelato al cioccolato
il dito, il palmo, un asse della panca
e un lembo della maglia: so fare di meglio,
per esempio anche la borsa e i pantaloni.

Mentre mangio con gusto, mi ricordo
che al mare, certe volte, da bambino
mi prendevano un gelato speciale:
nella coppa di vetro, al tavolino.

Un gelato da grandi, si chiamava “paciugo”
in un bar nel carrugio di Sestri Levante:
un gelato importante. Succedeva di rado,
due o tre volte in tutte le vacanze.

E mi viene una domanda: ma quando
a sette anni mi prendevano il paciugo
in quel bar che mi colpiva perché aveva
due uscite su due strade diverse,

ero felice? Ci penso e mi pare di no:
mangiavo avidamente, ma in affanno:
avevo dentro una specie di tensione
e quasi d’ansia: non godevo bene.

Quella tensione ce l’ho ancora dentro
a diversi livelli, qualunque cosa io faccia:
anche adesso, qui ad Acqui, sulla panca
all’ombra, mentre finisco il gelato.

Come funziona la felicità?
Forse ho sbagliato la mia impostazione
da sempre: ho mirato a rimuovere da me
quella tensione inquieta, ho mirato

a riposare in un quadro pacato
dove gustare il buono della vita
senza tensione – che poi forse vuol dire
senza conflitto, senza relazione.

Solo da solo e senza fare nulla
mi è parso d’essere felice davvero
per un minuto o due. E invece dovevo
esercitarmi a esserlo in tensione:

felice nella vita, non nei margini:
lieto nel gusto, non nel retrogusto
portato su papille di memoria
nella tana a goderlo in santa pace.

Vabbè. Strani pensieri. La coppetta
non so se fosse buona, era normale
e m’è piaciuta qui su questa panca
in questo pomeriggio ad Acqui Terme.

Farò altri giri in paese, c’è il sole
dopo la lunga pioggia di stanotte:
è bello questo scenario in esterno:
ciò che so è che vorrei vivere in eterno.


Scritta nel 2019.

La causa

01 sabato Giu 2019

Posted by carlomolinaro in poesie

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Tag

impegno civile, riflessioni

Vengono tempi oscuri, per oscuri
motivi: non è chiara la causa 
di questo scuro: pareva che i lumi
prevalessero nonostante tutto,
superate le carneficine
del secolo breve, portati i diritti
nei campi, nelle officine, portata
più libertà nella vita sessuale
e relazionale, in generale
pareva che pur con alti e bassi
la luce prevalesse. La scienza
consentirebbe lavorare meno
tutti, avere il tempo per giocare
e sognare, producendo il necessario
con serenità. Era plausibile
che prevalesse la luce, ma invece
vengono tempi oscuri, per oscuri
motivi. Un’ipotesi è che i giardinieri
si siano allontanati dal giardino:
senza cura costante, negligendo
di rinnovare ogni anno gli innesti,
i fiori fini, fragranti, delicati
tornano presto a inferocirsi in rovi:
furon rosai, ed or si fanno sterpi.


Scritta nel 2019.

Sei stupide terzine

03 mercoledì Ott 2018

Posted by carlomolinaro in poesie

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Tag

amore, cose di dentro, riflessioni

Sei bella di variabile bellezza
come il cielo se soffia un vento forte
scompigliando le nuvole sul blu.

Sei bella, anche, come un letamaio
che nell’inverno affida al vento un caldo
fumo di paglia macerata e sterco.

Sei bella come lo spazio che abbiamo
e che ci fa paura, questa vita
che non sappiamo vivere e perdiamo.

Cerchiamo fughe al di sopra del cielo,
fughe al di sotto dello sterco, e invece
tutta la meraviglia sta nel mezzo.

Ma è meraviglia breve e non ci riesce
d’accettare questa mortalità:
vogliamo eterni paradisi o inferni.

Così ci laceriamo nell’ascesi
o ci anneghiamo in abissi di merda
o scriviamo sei stupide terzine.


Scritta nel 2018.

Un garbo libero

11 mercoledì Lug 2018

Posted by carlomolinaro in poesie

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Tag

amore, eros, infanzia, riflessioni, scenari

Ti muovi sul letto delicata come
l’ingegno di zampe d’una cavalletta,
le mutandine blu sullo spigolo del fianco
son taglio d’ombra in un vicolo di sole:
risalti tutta sul bianco del lenzuolo,
appoggi il capo ai cinque asciugamani
appena lavati, piegati, che ti ho dato
perché non ho un cuscino, questa casa
è come è: «Sono buoni, profumati»
– dici e continui: «Mia madre non m’ha
abbracciata mai, nemmeno da bambina,
e la tua?» Guardo i cerchi di colore nell’iride
dei tuoi occhi: «Nemmeno la mia».
Fai un gesto del capo come un pesce
che affiora, hai le labbra sottili:
«Siamo a letto insieme». Ne convengo:
«Di fatto, sì». «Vorresti fare sesso?»
mi domandi allargando le palpebre.
«È una domanda difficile» – provo
a svicolare, ma tu sei perentoria:
«È difficile però non mi hai risposto».
«Mi mancano dei passi ad arrivarci».
«Allora questa notte non si può».
Sei bellissima, stesa su un fianco,
una spallina del reggiseno scivolata
sul braccio, l’ombelico, i capelli
d’un biondo ventilato di cortili.
«No» – ti confermo. «Cosa pensi?» – chiedi
cogliendo astuta un mio silenzio. «Niente».
«Impossibile» – ridi. «Va bene, pensavo
al tuo corpo mirabile e al mio
che troppo stona accanto». Mi fai
una smorfia: «Sono tutt’altro che perfetta».
«La perfezione è astratta, tu sei viva».
Mediti un attimo: «Sono a letto con te
e non sono a disagio». «Ne sono contento»
ti rispondo tenendoti la mano. Tu guardi
la finestra: «È già la luce del mattino?»
«Non so, forse è la luna che si scopre
da nuvole» (l’usignolo, l’allodola
mi viene in mente ma tengo per me
in quanto totalmente fuori luogo).
«Dormiamo un paio d’ore». Ti rannicchi
di spalle, il tuo collo fragrante a portata
della mia bocca. Non lo bacio ma lo venero
come dono prezioso. Mancano dei passi,
le madri non abbracciarono eppure
siamo bravi lo stesso, possiamo stare qua
sull’orlo che sappiamo: né fuggire
né approfittare: con un garbo libero
inedito, nuovo, rivoluzionario
medicare d’amore la fragilità.


Scritta nel 2018.

Sono queste

27 mercoledì Giu 2018

Posted by carlomolinaro in poesie

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Tag

cose di dentro, riflessioni

Sono i fantasmi dell’incerta infanzia,
gli improvvisi sgomenti, gli affetti rifiutati,
gli amori persi per vigliaccheria
o sbadataggine, i sordi rimorsi
per le gioie mancate, lo stridere cupo
dei giorni a capo chino, l’incomprendere
e l’essere incompresi, gli agguati
del nulla che instancabile c’insegue:
sono queste le cose che aprono squarci
d’inattesa paura, capogiri
su orli di abissi, sono queste
le cose a cui non puoi chiudere i porti.


Scritta nel 2018.

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