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Il vento strappa il fumo dai camini sui tetti.
Affrontare il disagio, dottore, affrontarlo
come una malattia psichiatrica? Non dico
che non serva, in qualche caso, in emergenza
qualche farmaco e, di più, ascoltare, farsi carico
dell’anima intera anche a costo di perdere
la propria (perderla, trasformarla) ma dottore
questo non lo può fare nessun professionista
né clinica pubblica né privata né istituto:
non ci si gioca l’anima per una parcella
o per uno stipendio, ci vuole un’amicizia
di quelle che accadono una vita su tre
o innamorarsi in quel modo con l’amore
che accade forse una vita su cinque e dunque
con il massimo rispetto, dottore, è un palliativo
tutto quello che si fa, la psichiatria, i servizi
e ben vengano, sia chiaro, è qualcosa
d’altronde ogni cura, a ben vedere, è un palliativo
perché la morte non la ferma nessuno
però adesso mi sono disperso, ciò che volevo dire
– la pausa della pioggia fa scoprire un po’ di fiume
fra gli alberi nudi inchinati dal vento –
sul disagio, ecco, è che il pazzo, il vero pazzo
è chi si trova a suo agio in questo mondo feroce
e il vero delirio è raccontarsi che va bene
questo massacro, questa sopraffazione
che quando vedi e senti non puoi mica sopportare
e allora gli occhi li socchiudi o li punti
verso un angolo calmo, un riquadro di terra
concesso al tronco di un albero in un viale
ma chi ha bisogno di boschi, boschi interi
si stanca, è sfinito per dolore, non riesce
più a vivere, non riesce, non riesce e non c’è
una soluzione, ci si dibatte o si rimane immobili
nella fiumana di melma e acqua e sangue
che nutre, a riva, i fiori del rimpianto.


Scritta il 3 marzo 2024.