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Carlo Molinaro

~ poesie e altre cose

Carlo Molinaro

Archivi tag: linguaggio

Le lingue

09 sabato Mag 2020

Posted by carlomolinaro in poesie

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linguaggio, relazioni

L’inglese, il francese, l’arabo, il tedesco,
il greco, lo spagnolo: siamo poco portati
noi italiani, si dice, alle lingue: le studiamo
poco, ce la caviamo malamente.

Credo sia vero. E poi non sono solo
queste «estere» le lingue da studiare
che noi poco studiamo. C’è la lingua
di chi ha vissuto una diversa infanzia,
di chi ha sofferto cose a noi ignote,
di chi ha amato in un diverso modo
o ha conosciuto entusiasmi che noi
non concepiamo o s’è immerso in angosce
difformi dalle nostre o ha sviluppato
idee in percorsi da noi non seguiti:
magari è dello stesso quartiere,
forse è nostro cugino addirittura
ma la sua lingua è altra, perché
altramente è nata ed è cresciuta:
si dovrebbe studiare, impegnarsi a studiare
per potersi parlare.


Scritta nel 2020.

La luce

14 sabato Set 2019

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore, cose di dentro, linguaggio

In una sera percepire a un tratto
l’egoismo di tutte le canzoni d’amore:
cadere oltre, dove non è più cantabile
l’amore – dilatato, schiacciato, teso
come pelle concia su chiodi
disposti male, in modo disarmonico
nel disegno inconcepibile del vero. Non più
dire né fare né baciare, passate
le lettere vergate in eleganza, inutile
il testamento. Eppure non fu inganno:
fu sogno caparbio, rannicchiato
come un bambino, la fronte sui ginocchi.
Il giorno respinto s’accumula a strati
sulle palpebre chiuse: attutisce
il rumore di ciò che accade intorno
al prolungato dormiveglia, ovatta
la scena incongrua. Percepire a un tratto
il giro in folle di tutte le canzoni:
lo stacco fra le mani e gli strumenti,
la porzione di vuoto in cui si slitta.
Cadere oltre, in un risveglio bianco
male rappreso, non disteso ad arte
ma irto di di scaglie, scabro d’ombre mobili
a brulicare. Sei qui e non posso fare
nulla – nulla, proprio ora che
il canto dolce dei fantasmi tace
e squarcia ogni sontuosa nostalgia
la luce in cui ti mostri.


Scritta nel 2019.

Quasi niente

12 venerdì Ott 2018

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore, linguaggio

Schiudendo le gambe, rilascia
un profumo che non è di fiore schiuso,
sciocca similitudine, ma
di sé, dell’utero, del macero
dolce che ha principio in primavera
rovesciandosi in brecce di cortili.

«Rilascia» in questa accezione
è neologismo d’un lessico scientifico
inglese, non avrei potuto scriverlo
quarant’anni fa. Ma è sciocco arroccarsi,
è meglio schiudersi a contaminazioni
fertili, come le gambe accoglienti.

Rilascia o emana, dunque, un odore
che nel mio olfatto si mescola al mio
e m’eccita e m’attrae – ma
non è detto che avvenga il medesimo
in lei: ogni cosa è diversa
secondo le diverse ricezioni.

«Ricezione» in questa accezione
l’ho imparato lavorando all’Atlante
del Cristianesimo della Utet.
Lo usano per le encicliche: un conto
è come scrive il papa, un altro conto
come chi di dovere lo riceve.

Ho imparato parole lentamente.
Alla laurea ero quasi analfabeta.
Parole. Buoni attrezzi. Ma non servono
a far sì che l’odore di noi
ecciti lei come eccita me.
Dunque servono a poco, quasi niente.


Scritta nel 2018.

Facciamo che è

19 giovedì Ott 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore, cose di dentro, linguaggio, scenari

Può essere un vantaggio
non avere più nulla da perdere:
capire che l’amore, ove mai esistesse
– il che non mi pare dimostrato –
non è né è mai stato
a mia portata.

Smettere di costruire, smettere
di scomporre, di studiare, d’indagare:
coltivare un caos garbato, curare
non fiori classificati
ma smilzi fili d’erba o strane
piante su orli di discariche
senza cercarne su lemmari il nome.

Tanto il nome sarebbe a me straniero:
la pianta che osservo, che annuso
seduto a terra sul margine
d’uno spazio di banlieue, fra rottami
d’ombrelli e passeggini e brandelli
di plastica bianca, non è
– anche affermasse una scienza che fosse –
la pianta battezzata da Linneo
o da altri dotti. Non lo è:
è la pianta a cui do nome io,
non è mai, mai spuntata né cresciuta
altrove che ora qui, ne sono certo.

Ci siamo ingannati. Non ho mai saputo
la vostra lingua, né voi la mia.
Abbiamo dato risposte
che non c’entrano: tutto
non è mai stato che un’ecolalia.

Ammesso questo, possiamo giocare
a guardare le barche sul fiume o a salvare
il mondo – che c’importa, alla fine
che non sia la medesima barca
ad alzare dall’acqua farfalle di luce,
che non uguale si disegni il mondo
negli occhi e nel pensiero?
Noi giochiamo. Facciamo che è.


Scritta nel 2017.

Mamma mi prude la schiena

08 martedì Ago 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, linguaggio, scenari

sul tram tre una bambina dice
mamma mi prude la schiena
lo dice benissimo, non in bambinese
né in affettato adultese
né in televisionese, no, dice proprio
semplicemente
mamma mi prude la schiena
lo dice come è naturale che sia detto

con tutto che è vestita da bambina borghese
{borghese è tutto, tranne qualche
emarginato [ma (solo) qualche]}
con gonnella rossa sbuffante
e maglietta con principessa bionda

assomiglia moltissimo alla madre
sono belle le bambine che assomigliano alla madre
cioè, non è che siano belle
ma è bello <è divertente> che assomiglino
e possono poi essere anche belle

al padre no, non è così divertente
per una femmina assomigliare troppo al padre
è controproducente, può avere
tratti troppo virili, grossolani

assomigliano al padre le tre sorelle E.S.
in particolare la più piccola, T.
ma anche E. sta sviluppando con il tempo
un germe in tale direzione
non però in modo preoccupante

non dovrei andare a parare sempre lì
perché non dovrei?
paro dove mi pare
e divago quanto voglio divagare
[con tutte le parentesi che voglio]

maledetta tastiera che resta indietro al mio pensiero
le lente tastiere di Dover
ascoltando la bambina sul tram tre
mamma mi prude la schiena
ho pensato che vorrei rinascere
con un’altra lingua
e un altro corpo e un’altra voce

ho assimilato così tanti accenti e sintagmi
che le parole non mi sembrano mie
[le decido io, eppure]

ecco per esempio questo «eppure»
io da ragazzino non dicevo «eppure»
così come inciso, «eppure»-punto
e poi ho cominciato a sentirlo
e poi a dirlo
è ciò che voglio veramente?

anche
«è ciò che voglio veramente?»
è frase non del tutto mia
l’ho assorbita da qualche gergo

vorrei raschiare via tutte le parole
e come un giardiniere
liberate le aiuole
farle ricrescere dai semi,
dai semi antichi, farle rigermogliare
dalla loro preistoria
come sono veramente

dev’essere un mio problema remoto
perché da ragazzino m’ero inventato una lingua
– dico da ragazzino per evitare il TSO
ma a essere sincero
ci lavoravo su ancora verso i trent’anni –
una lingua solo mia, perfettamente inutile
ma perfettamente aderente
a me

poi ho smesso, per fortuna
ho smesso per via del <perfettamente inutile>
era però divertente
era complicatissima e affascinante

l’inverso del sempliciotto esperanto
non una lingua per comunicare con tutti
ma una lingua per comunicare con nessuno
difficile, inutile, divertente

poi ho voluto farmi capire
e sono pieno delle parole vostre
dei vostri accenti, delle vostre inflessioni
mi sono rivolto all’esterno
un poco

un caffettino, relazionarsi
si faccia attenzione
la mancanza d’empatia si manifesta

certe volte che capogiri, che capogiri
cade in vertigine il mio scheletro muto
spolpato

com’era Cenerentola, che le sorellastre
quello è mio, quell’altro è mio, ladra
la lasciano nuda
(nuda di un nudo disneycompatibile)
perché s’era vestita di roba scartata da loro
ma pur sempre loro

voi tutti potreste spogliarmi
delle parole che vi ho rubato:
io ne ho di mie, di veramente mie?
non lo so più

le parole, razionalmente lo so, dovrebbero essere
di tutti e di nessuno
come la donna di malaffare
(dio mio quanto amo le donne di malaffare)
di Max Manfredi:
di tutti e di nessuno,
come una lingua, come un altare

però non so
nella donna mi ritrovo se la abbraccio
avesse anche abbracciato e abbracciasse
un milione di altri uomini
fra le sue cosce riconosco me:
lei, di tutti e di nessuno, fa esistere me

la parola se non la riconosco
come generata da me in millenaria ontogenesi
non la so decifrare in voi, in te
nell’improbata filogenesi
parallela (parallela? come verificarlo?)
<difficile spiegare, difficile>
ed è capogiro, abisso, decomposizione
oltre che ovviamente
incomunicazione

{psichiatricamente potrebbe essere un io fragile il mio:
l’io forte avrà forse – che cazzo ne so? – un nucleo
invariante [plasticamente invariante? (è sensato?)]
che permane “io” nel sansebastianico martorio
di verbifrecce altrui, schizzi di carne e sangue, permane
– no, non lo visualizzo, è una cazzata}

{pure, come dicevo, se potessi rinascere
con un’altra lingua, un altro corpo,
altre parole, altra voce, altro tutto, sarei io, iissimo:
ho allora un mio solido nucleo
preverbale, prelinguistico, preformale,
precarnale, prepsichico, preontologico, lasciamo stare, boh}

nello smottare rovinoso dei sociali sintagmi
m’annovero disperso, smateriato:
è troppo abile il nemico
nell’espropriarmi l’anima
avocandola al suo lessico deviato

la palla candida che voglio lanciare
me l’annerisce mentre ancora ce l’ho in mano:
la lascio, inutile, cadere

mamma mi prude la schiena
l’ha detto bene però la bambina
sul tram tre, ho sentito quella schiena
prudere, normale, come fosse
prima d’ogni linguaggio
schiena davvero

poi cambierà anche lei, ma per oggi
è stato così


Scritta nel 2017.

Mondi perduti

25 martedì Lug 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, linguaggio, scenari

È che la famosa frase
d’un film di fantascienza
citata qua e là
«ho visto cose che voi umani»
in punto di morte, io credo
la potrebbe dire chiunque
il genio come lo scimunito
come un passero, un albero forse:
abbiamo tutti visto cose
che soltanto noi, soltanto noi
– ed è un rimorso strano, scomparendo
non averle sapute raccontare
davvero bene, così bene che l’altro
le vedesse anche lui.


Scritta nel 2017.

Overflow

25 martedì Lug 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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linguaggio, scenari

Ogni parola gliene evoca un’altra,
almeno un’altra ma più spesso
tre, cinque, dieci a cascata
e no, non è ricchezza, è un pandemonio
in cui si perde, in cui tutto
perde significato, per il troppo pieno
– significato sono le caselle vuote
ben disposte, senso è ciò che manca –
si perde, si gonfia, dalle strette pareti
dei vicoli del labirinto
scendono voci d’assassinî lenti:
stoiche sirene per motivi incomprensibili
servono sugo a tritoni in mutande
e i muri quasi si piegano a dire:
sei tu che sei voluto stare fuori.

Arranca, cerca un angolo più scuro
in cui pisciare senz’essere additato,
lo distrae per un attimo fra i ciottoli
un fiore giallo, basso, innominato.


Scritta nel 2017.

Carme preadamita

26 venerdì Mag 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, linguaggio

il mio peccato, Dio,
è che in Eva desidero Eva
non simboli né lingue né scritture:
so che ciò è d’inaudita violenza
– è mia natura

il mio peccato è che
non che mangiare quel frutto
vomiterei tutti i frutti precedenti:
tornerei puro com’ero
prima che tu, Dio stronzo, mi creassi

Eva ne ha preso come tu volevi
Dio pagliaccio travestito da serpe:
ti s’è consacrata
ha diverse esigenze
– è tua schiava

io resto solo
bestia ferita a latrare per selve:
ma che dal profondo
a te, Dio astratto, si levi il mio latrato
scòrdatelo


Scritta nel 2017.

La parrucchiera in via Livorno

24 mercoledì Mag 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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linguaggio, scenari

In via Livorno strisce di rose
s’alternano a erbe incolte vigorose
in proporzione che a me pare giusta
fra cura e non cura, fra volere
e lasciare che sia. Il mattino di maggio
è bianco afoso, sudo nella maglia
senza fastidio. Lentamente cammino
con la borsa della spesa: ho comprato
due o tre cose più o meno necessarie.

La parrucchiera scopa via la polvere
dal gradino del moderno negozio
con scritte inglesi sui vetri: extension
in offerta. È bionda, graziosa,
muove la scopa in cerchi d’una danza
rituale, chissà se lo sa. Parrucchiera,
tu che conosci l’arte, se accetto l’offerta
potresti farmi un’extension dell’anima
perché io capisca davvero la tua vita,
perché non sia un’arcadia d’imbecille
mostrarti qui l’erba incolta, le rose?


Scritta nel 2017.

Carmen technicum

28 martedì Mar 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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linguaggio, riflessioni

Il segno disegnato da Saussure
a me pare una macchina celibe:
ha due facce che fra loro comunicano,
significante e significato, ma il significato
non è le cose. Le cose stanno fuori,
appena sfiorate da un debole nesso:
funziona il segno solo dentro sé.
Racconta Franco che Adelaide Petz
von Drauenau diceva che l’osmosi
parola-realtà finisce già in Kant:
ma che faremo dunque? Le cose,
le cose, furibondo folle amore
che anche quando s’apre ti respinge,
che anche se risponde t’abbandona
al tuo gioco di segni, di sogni. Non so:
m’accusano talune femministe
di ridurre a oggetto le donne.
Hanno ragione, a volte, però sbagliano
verbo: non ridurre ma innalzare
a oggetto contemplabile, stupendo
senza limite di lingua o relazione
come un paesaggio, un elefante, un treno,
un vortice di foglie dietro un tram,
l’odore d’una piega di mucose:
l’assoluto ineffabile oggetto
(ma ineffabile è simile a nefasto,
in-ex-fa-bilis, ne-fa-stus
fa- ri, fa-tus, φημί, dal principio
la lingua, beffarda, si autodenuncia
e non si pente) – l’oggetto
vero che siamo, sotto l’essere persone
significanti, celibi: non posso
spiegarlo – è naturale che io non possa,
è come dire l’acqua agitando
dell’acqua con le mani: la parola
resta fuori, ma queste che scrivo
sono parole.

Un dizionario greco-inglese on line
traduce τέχνη con skill, immagino
Efesto che porta un curriculum
a un’agenzia interinale, rimango
ancora un poco a giocare.


Scritta nel 2017.

Perché faccio poesia

16 giovedì Feb 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, letteratura, linguaggio

ogni tanto in qualche intervista
qualche presentazione
mi chiedono
perché faccio poesia
e non so mai rispondere

oggi una risposta
m’è venuta in mente

faccio poesia perché
non posso vivere solo annusando
come un ignaro animale
ma nello stesso tempo
il mio verbo non crea il mondo

conoscenza senza onnipotenza
sapere senza potere
è una fregatura

ho un linguaggio inutile
devo almeno renderlo bellissimo


Scritta nel 2017.

I tramonti fra Chivasso e la Dora

03 venerdì Feb 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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linguaggio, scenari

«Sei un poeta dei miei stivali», disse,
annuii (è bello annu-i-i, come Minne-ha-ha)
e li osservai, avevano tacchi alti,
massicci eppure snelli, e la guaina
di finta pelle avvolgeva il polpaccio
(un polpaccio palpava una polpetta
in fondo al mare, tutta tentacolandola,
ma lei non cadde in tentacolazione)
fino al ginocchio, calze velate dentro,
provocante abbastanza, le dissi
che volevo provare a sfilarle gli stivali;
«sei un poeta del cazzo», ribadì, annuii,
il cazzo ha una sua importanza, dissi,
fra le altre cose, io davvero vorrei
in te inserirlo, nell’apposita fessura,
come il bancomat nella macchinetta
dei biglietti alla stazione, l’analogia
mi fece pensare ai viaggi, alla pianura,
ai tramonti fra Chivasso e la Dora.


Scritta nel 2017.

Glottomachìa

10 martedì Gen 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, linguaggio

Siamo generati dal linguaggio, sono
io generato dal linguaggio, suggerisce
la filosofia. Ma se io sono
generato dal linguaggio, perché
mi nacque una nascita animale
e mi ucciderà una morte
animale, per nulla diversa
dalla morte d’un gatto o d’un insetto?

Il linguaggio è un inganno provvisorio
fra il muto vero del nascere
e il muto vero del morire.

E per questo suo inganno abominevole
io lo odio, il linguaggio, lo riduco
a vile strumento, lo uso per cercare
odori, orgasmi, estasi
eterne quanto il muco
da cui sguscia il feto,
quanto il fetore della putrefazione,
quanto la meraviglia della
vorace voglia d’un coito, d’un colore.

E lui odia me. Lottiamo da sempre:
lui sa che ho bisogno di lui,
dei monconi di senso
che pendono dalle parole
come da rami secchi frutta guasta
ma necessaria;

io so che ha bisogno di me,
che senza la mia carne e il mio sangue
cesserebbe all’istante
come un film sullo schermo
se manca la corrente.

Lotto come una bestia ma vorrei
perdere, in fondo: vorrei che esistesse
un verbo astratto, scarnato, dissanguato,
fuori dal ciclo di gorghi e polluzioni:
un luogo dove salvare gli amori.

Ma a generare il linguaggio protervo
fu un bollire di miasmi, fu un breve
alzarsi umile di steli da un fango.

Nessuno vince. Finiremo, finiamo.


Scritta nel 2017.

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