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Non pensarci, mi dicono. Non posso
non pensarci, ma poi perché
non pensarci? Ti vedo arrivare
sotto casa, scesa forse dal quindici
apri il portone, sali a piedi i cinque piani,
apri la porta del tuo appartamento,
entri e chiudi. Non la aprirai mai più.

Ti vedo, non lo so cosa tu faccia
e quanto tempo passi, ma ti vedo:
metti accanto alla ringhiera la scaletta
con le tue braccia agili. Scrivi
l’ultima frase a penna su un foglietto
e lo appoggi sul tavolo con cura.
Forse ormai calma, non ti trema la mano
e c’è silenzio. Ti vedo interamente
pur non vedendo, ti vedo senza il rumore
del flusso vano di immagini che ingozza
quest’epoca gommosa, solitaria.

Ti vedo come sul muretto nella piazza
dove aspettammo che ci mostrassero un alloggio
e si parlava di modeste, ordinarie
cose: ti vedo come la mattina presto
sul lungodora, o a mangiare ciliegie
nello slargo, sulla panca arcobaleno.

Ti vedo come nessuno ha rubato
né in parole né in foto, custodita
in un’aria sospesa dove il sole
svela senza intenzione gli sciami dei corpuscoli.

E vedo la mia assenza, l’impotenza:
gli istanti alla rovescia del salire
ancora quattro scalini di metallo
tu delicata, debole, dolcissima
nell’attimo reale irreversibile
cadere in volo, sciolta, immolata:
“nemmeno i capelli degli uccelli
hanno gli intrichi dei miei”.

Sia benedetto il dolore perché è vero:
il suo ago trapassa il vaneggiare
fatuo che ci stordisce in prigionie
irretite di suoni e di bagliori:
fa sanguinare le nostre parole
e riesce ancora a ricucire mondi.

Sii benedetta, nel dolore, tu
che hai donato penombra e brezza lieve:
ti vedo dove non si trova traccia
di nessuna di quelle che non eri
né di me che nemmeno so chi fossi:
dove c’è spazio in cui si può ascoltare
il canto delle valli, delle foglie,
delle nubi, degli angeli, di noi.


Scritta nel 2022.