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Carlo Molinaro

~ poesie e altre cose

Carlo Molinaro

Archivi tag: infanzia

Il pazzo e lo yogurt alla vaniglia

18 mercoledì Set 2019

Posted by carlomolinaro in poesie

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Tag

cose di dentro, infanzia, scenari

Lo so, dottore, sono sempre fuggito
– disse il pazzo – davanti all’insostenibile.
Neanche ho alzato gli occhi per guardarlo.
Mi sono difeso restando bambino
o qualcosa ancora prima. Adesso spero
di morire nel sonno, in un punto del sonno
in cui sogno di non essere mai nato:
unico modo per fare equilibrio.
Quelli che sono cresciuti, che guardano
dentro il muso dell’insostenibile
non ho idea di come facciano, mi creda
dottore: non lo riesco a immaginare.
Ma qui nel cortile, all’ombra dei pochi
alberi rachitici che sfiorano il muro
non si sta male, dottore. Per cena
ci sarà yogurt magro alla vaniglia?
È il mio preferito, un poco mi consola
nell’abisso del buio della sera.


Scritta nel 2019.

Gelati

31 mercoledì Lug 2019

Posted by carlomolinaro in poesie

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Tag

infanzia, riflessioni

Su una panchina in un giardinetto
ad Acqui Terme mangio una coppetta
di gelato, presa da “Crema e frutto”,
via Monteverde quarantadue.

Riesco a sporcare di gelato al cioccolato
il dito, il palmo, un asse della panca
e un lembo della maglia: so fare di meglio,
per esempio anche la borsa e i pantaloni.

Mentre mangio con gusto, mi ricordo
che al mare, certe volte, da bambino
mi prendevano un gelato speciale:
nella coppa di vetro, al tavolino.

Un gelato da grandi, si chiamava “paciugo”
in un bar nel carrugio di Sestri Levante:
un gelato importante. Succedeva di rado,
due o tre volte in tutte le vacanze.

E mi viene una domanda: ma quando
a sette anni mi prendevano il paciugo
in quel bar che mi colpiva perché aveva
due uscite su due strade diverse,

ero felice? Ci penso e mi pare di no:
mangiavo avidamente, ma in affanno:
avevo dentro una specie di tensione
e quasi d’ansia: non godevo bene.

Quella tensione ce l’ho ancora dentro
a diversi livelli, qualunque cosa io faccia:
anche adesso, qui ad Acqui, sulla panca
all’ombra, mentre finisco il gelato.

Come funziona la felicità?
Forse ho sbagliato la mia impostazione
da sempre: ho mirato a rimuovere da me
quella tensione inquieta, ho mirato

a riposare in un quadro pacato
dove gustare il buono della vita
senza tensione – che poi forse vuol dire
senza conflitto, senza relazione.

Solo da solo e senza fare nulla
mi è parso d’essere felice davvero
per un minuto o due. E invece dovevo
esercitarmi a esserlo in tensione:

felice nella vita, non nei margini:
lieto nel gusto, non nel retrogusto
portato su papille di memoria
nella tana a goderlo in santa pace.

Vabbè. Strani pensieri. La coppetta
non so se fosse buona, era normale
e m’è piaciuta qui su questa panca
in questo pomeriggio ad Acqui Terme.

Farò altri giri in paese, c’è il sole
dopo la lunga pioggia di stanotte:
è bello questo scenario in esterno:
ciò che so è che vorrei vivere in eterno.


Scritta nel 2019.

Un garbo libero

11 mercoledì Lug 2018

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore, eros, infanzia, riflessioni, scenari

Ti muovi sul letto delicata come
l’ingegno di zampe d’una cavalletta,
le mutandine blu sullo spigolo del fianco
son taglio d’ombra in un vicolo di sole:
risalti tutta sul bianco del lenzuolo,
appoggi il capo ai cinque asciugamani
appena lavati, piegati, che ti ho dato
perché non ho un cuscino, questa casa
è come è: «Sono buoni, profumati»
– dici e continui: «Mia madre non m’ha
abbracciata mai, nemmeno da bambina,
e la tua?» Guardo i cerchi di colore nell’iride
dei tuoi occhi: «Nemmeno la mia».
Fai un gesto del capo come un pesce
che affiora, hai le labbra sottili:
«Siamo a letto insieme». Ne convengo:
«Di fatto, sì». «Vorresti fare sesso?»
mi domandi allargando le palpebre.
«È una domanda difficile» – provo
a svicolare, ma tu sei perentoria:
«È difficile però non mi hai risposto».
«Mi mancano dei passi ad arrivarci».
«Allora questa notte non si può».
Sei bellissima, stesa su un fianco,
una spallina del reggiseno scivolata
sul braccio, l’ombelico, i capelli
d’un biondo ventilato di cortili.
«No» – ti confermo. «Cosa pensi?» – chiedi
cogliendo astuta un mio silenzio. «Niente».
«Impossibile» – ridi. «Va bene, pensavo
al tuo corpo mirabile e al mio
che troppo stona accanto». Mi fai
una smorfia: «Sono tutt’altro che perfetta».
«La perfezione è astratta, tu sei viva».
Mediti un attimo: «Sono a letto con te
e non sono a disagio». «Ne sono contento»
ti rispondo tenendoti la mano. Tu guardi
la finestra: «È già la luce del mattino?»
«Non so, forse è la luna che si scopre
da nuvole» (l’usignolo, l’allodola
mi viene in mente ma tengo per me
in quanto totalmente fuori luogo).
«Dormiamo un paio d’ore». Ti rannicchi
di spalle, il tuo collo fragrante a portata
della mia bocca. Non lo bacio ma lo venero
come dono prezioso. Mancano dei passi,
le madri non abbracciarono eppure
siamo bravi lo stesso, possiamo stare qua
sull’orlo che sappiamo: né fuggire
né approfittare: con un garbo libero
inedito, nuovo, rivoluzionario
medicare d’amore la fragilità.


Scritta nel 2018.

Dai miei vaghi ricordi d’infanzia

06 venerdì Gen 2017

Posted by carlomolinaro in poesie

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infanzia, scenari

mi irrita nell’infanzia
il ricordo di una compiaciuta penombra irrisoria
che riduceva in piccole comiche tragedie
ogni cosa, dai cancri agli amori
con un identico, ebete, scuotere del capo,
ha il cancro, va là, fra sei mesi il funerale,
ha l’amore, va là, è roba da nulla, ridicola

ma mi rendo conto che non mi sto spiegando,
è difficile spiegare:
pensandoci, non ricordo qualcuno piangere, mai
se non bambini, o adulti per sciocchezze
rabbiose, materiali

sì, il Piemonte, la piccola borghesia di provincia
non so se basta come spiegazione

ma poi la cosa che mi irrita di più
a essere sincero
è quando mi succede ancora
di pensare che avessero ragione,
che fosse realtà quella penombra e illusione
ogni fuga nella luce, nel pianto

quando lo penso rapidamente uccido
la parte di me che lo pensa
ma non sempre è sufficiente

dal finestrino bel bus osservo
la striscia bianca di mezzeria che corre
nel sole chiaro, in corso Vercelli:
è bellissima, già muove meraviglia e nostalgia
e lacrime sapere
che non sarà più


Scritta nel 2017.

Lo scultore

31 lunedì Ott 2016

Posted by carlomolinaro in poesie

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Tag

cose di dentro, infanzia

Lo scultore inseguendo perfezione
ridusse il marmo in polvere, tutto
il marmo in polvere: quella
– la sua disperazione –
fu perfezione: la sagoma
fu inghiottita da baratri in cui
buio come budella
bolliva, montando, l’ineffabile.

Proferita, ecco, la crudele verità
gli parve meno vera
di quando la negava:
si sgretolò in rumori da nulla,
svanì in crolli e almeno
la desolazione di macerie
che gli apparve da nebbie luminose
indusse trasognando
un benché dubbio amore
che perdonò la colpa deforme
delle cose, degli uomini: a lui
la noia disertata, il rancore
di mai raggiunte madri, gli inganni
definitivi: sull’orlo dello smangiato
cratere, nello spazio di taglio
tra fuoco e fuoco
brevemente profumarono nicchie
d’avambracci, di natiche, grembi:
gli occhi accesero gli occhi,
ci possiamo, pensò, persuadere.


Scirtta nel 2016.

Le spalle

30 lunedì Nov 2015

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amore, cose di dentro, infanzia

Y besaba después,
con su mal fingido deseo,
el hombro desnudo
de una muchacha cualquiera
.

Juan Manuel Muñoz Aguirre

Le spalle nude delle ragazze dove
appoggio o vorrei appoggiare le mani
per farmi saldo nell’offrire e prendere
calore sono l’infanzia, la terra
dove non sono cresciuto, i cani
che non ho portato a correre nei prati:
sono il luogo che al sogno dà acqua e materia,
il paese dove nessuno mi conosce,
da cui partii non so quando in esilio
forse volontario, e ritorno talvolta
per un’ambigua nostalgia, fingendomi
lo straniero che sono: curioso, incantato
nell’osservare ciò che la gente del posto
con amorevole brusca confidenza
senza guardare afferra, usa, gode.


Scritta nel 2015.

Filastrocca della liseuse

15 domenica Nov 2015

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Tag

cose di dentro, infanzia, scenari

Mia nonna si metteva la liseuse,
la ricordo assai brutta triste e sciatta.
C’è in ogni donna un poco d’allumeuse
e forse anche c’è un poco di gatta

morta – che non so poi cosa significa:
nell’uomo pure c’è un po’ d’allumeur
forse, ma credo meno: a una magnifica
donna, per ritrovare del bonheur,

l’uomo vuol fare almeno qualcosina.
Mia nonna mi sgridava se lasciavo
polpa attaccata al seme di susina,
per via dello sprecare: io lo succhiavo

ma ne restava sempre, ero in difetto
e nonne e donne e gente in generale
pareva che volessero un perfetto
me che a me tuttavia suonava male.

Mia nonna si metteva la liseuse,
io mi bevevo un poco di gazeuse
e forse già sognavo un’entraîneuse
nuda sensuale sopra la dormeuse

che stava chiusa nella sala scura
fra l’alta cristalliera e il serre-papier,
che nel pensier rinnova la paura:
m’insegnarono molti savoir faire

però nessuno della mia misura.
Ha tutto il mondo un poco d’allumeuse:
m’affascina ma c’è una serratura
di cui non ho la chiave. La liseuse

sarà finita in qualche cassapanca
con tutto quell’inutile ciarpame:
ora son vecchio e ancora non è stanca
la mia voglia – d’amore ho ancora fame.


Scritta nel 2015.

Parabola

10 martedì Nov 2015

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amore, cose di dentro, il gioco che vale la candela, infanzia, la parola rinvenuta, poesie del Novecento, Premio Montale

L’anima mia è un quadro che dipinsi
ad occhi chiusi in un tempo che non so,
e il soffio della terra ne ha fissato
piano piano i colori.

Il bimbo tenne il braccio
ripiegato sul volto, perché i bimbi
hanno paura. Ma l’uomo, più forte,
osò aprire le mani e guardare.

Allora quasi nulla che domestico
mi fosse io vidi. Solamente, a volte,
un suono un volo un arco una fanciulla
trovo che già conobbi
alla mia tela, forse
quando ancora ero altrove.

E disperatamente m’innamoro:
come l’esiliato quando legge
all’improvviso nel porto straniero
dove cammina pensoso fra gli odori
un nome di sua lingua su una prora.


Da 6 poeti del Premio Montale – Roma 1985, All’Insegna del Pesce d’Oro, Scheiwiller, 1986; poi  ristampata in Il gioco che vale la candela, Genesi Editrice, 1988; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

La lettera al maestro

08 domenica Nov 2015

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cose di dentro, infanzia, le cose stesse

M’è venuto in mente che in seconda elementare
– correva l’anno mille novecento sessanta –
scrissi una lettera al mio maestro elementare:
gliela scrissi a casa, con francobollo e tutto.
La mia grafomania ha radici lontanissime.
Non è che in quell’epoca remota
i maestri dessero in classe l’indirizzo di casa:
ma io, piccolo stalker, lo trovai.
Una lettera non lunga, di cui ricordo solo
le prime parole: «Caro Guido,
parliamoci chiaro: non si può andare avanti così».
Queste parole le ricordo. Poi credo seguissero
lamentele abbastanza generiche
su malfunzionamenti della scuola.
Non era facile avermi per allievo da bambino,
non è mai stato facile avermi in qualsiasi ruolo.
Il maestro in classe davanti a tutti mi chiamò
e disse: «Mi è arrivata una lettera
dal nostro Molinaro: di’ un po’ ai tuoi compagni,
Molinaro, che cosa mi hai scritto».
(All’epoca ci si chiamava solo per cognome,
ci chiamavamo per cognome anche fra noi bambini,
di qualche mio compagno non ho mai saputo il nome,
per esempio il Vailati, lo Zirilli e il Niemen,
mai saputo come facessero di nome.)
Io mi sentii sprofondare, mai avrei immaginato
che il maestro mi chiamasse per quella lettera
(non penso mai alle conseguenze delle mie azioni)
e balbettai: «Ho scritto… ho scritto “caro signor maestro”…»
Ma lui mi corresse: «No, hai scritto “caro Guido”».
Non mi punì, ma tutti risero e fu molto umiliante.
E finì lì. Non era come oggi: oggi se un bambino
di sette anni scrivesse una lettera del genere
chiamerebbero i genitori e poi anche gli psicologi,
e gli psicologi direbbero che la lettera è un segnale
da valutare, e nel loro abbastanza detestabile gergo
direbbero forse addirittura che è «una richiesta d’aiuto»
(sanno essere più umilianti che un maestro anni Sessanta,
gli psicologi di oggi, ma non se ne rendono conto).
Il concetto che esprimevo nell’incipit della lettera
era abbastanza esplicito: che ci si deve parlare
e che non si può andare avanti così;
e dire «tu Guido» anziché «lei signor maestro»
era una trasgressione (all’epoca) molto grave
che voleva forse abbattere una distanza, un muro,
ma lo faceva in un modo completamente sbagliato,
saltando tutti i passi necessari:
e per iscritto, perché sono timido.
Insomma, la cosa finì lì. Chissà perché
m’è venuto in mente stanotte ’sto fatto.
Forse perché mi sono svegliato con la sensazione
– più di mezzo secolo dopo –
che non si è mai parlato con nessuno
e che si è andati avanti così,
nel modo (mondo) per me inaccettabile,
da allora a oggi e a domani e per sempre
– e le distanze e i muri ancora adesso
non l’ho mica imparato il modo giusto
per provare ad abbatterli.


Da Le cose stesse, Matisklo Edizioni, 2013.

Il terracantieremotocarroluce

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, infanzia, una città

No, vede, in questa sera diversa, ulteriore,
lo sento, sa, come è inutile raccontare:
eppure non c’è altro da fare,
devo scrivere il tema, professoressa:
sono rimasto un momento questo pomeriggio
mezzo assopito sul letto e ho sognato di essere
nella strada su cui fuggiva il motocarro
arrugginito e a destra c’era la voragine
del cantiere e a sinistra l’asfalto, e in mezzo
un ciglio rado d’erba, qualche fiore minimo
e l’odore che lasciava il motocarro
aspro, di ferro e carburante bruciato
e l’erba, e tutto insieme
era da esplorare e respirare
(non c’era differenza fra esplorare e respirare):
anche allora la sera cominciava dalla terra
scoperta della buca che si faceva umida
e scura e rasa dalla luce scarsa
sulle scabrosità che si alzavano come pustole:
tutto era insieme, non è che fosse
umida e poi scura e poi rasa dalla luce,
era qualcosa che è questo insieme indivisibile,
professoressa, è per questo che nei temi
non uso gli aggettivi, lei mi rimprovera,
ma gli aggettivi sono talmente generici:
umida e scura e rasa ma veramente
non era nessuna di queste cose, no,
era quello che sentivo nella bocca passando,
so benissimo com’era:
tornavo a casa agitato e i miei «cosa hai fatto?»
e io «niente» e passavo per un bambino scorbutico
ma non era per cattiveria era perché
non c’erano le parole per dirlo
e non ci sono neanche adesso, signora,
e soprattutto gli aggettivi no,
gli aggettivi sono troppo fuorvianti,
terra umida lei chissà cosa pensa:
magari i campi ubertosi o l’irrigazione:
no vede quella terra era dura compatta,
come dire, l’umido ce lo metteva la sera
con lo scuro o forse, sa, ce lo mettevo io,
perché altri testimoni avrebbero riferito
diversamente, avrebbero detto
«guarda che bella sera d’estate c’è venuta»
oppure «che quartiere di merda con tutti i lavori di scavo»,
ma quel ciglio con poca erba e qualche minimo fiore
fra quell’asfalto sgranato, sa, quello grezzo
e la terra, aveva un odore che i fiori
erano la stessa cosa del motocarro,
petali di benzina, erba arrugginita,
ma non lo dico in senso negativo:
vede com’è difficile professoressa,
era meraviglioso che tutto stesse insieme,
le giuro era un profumo meraviglioso
quello che filava dietro il motocarro,
qualche radice che spuntava dal taglio
dello scavo del cantiere e il calore
del giorno restava, ma era freddo e la luce
c’era ma diventava scura, vede quanti aggettivi
non funzionano, anche gli altri dettagli,
rumori di ruote e di campane
e più in là l’orizzonte era tutto macchiato
di fumo dei camion, lei non ha idea
di quanto sia bello quell’arancio pallido col nero
del fumo e la terra che sosteneva il motocarro
e me, le mie scarpe, tutto aveva un odore congruente:
ma vede che mi disperdo, sarà contenta che ho usato
più aggettivi però io no, sa, a ogni respiro
mi sembrava di avere già perso il filo
come se un attimo prima ci fosse qualcosa
a cui non ero stato attento abbastanza, ma almeno
restava quella luce-odore-scuro chiaro,
vede, io sapevo perfettamente che cosa teneva uniti
l’erba e il motocarro e la fila delle case
con lo scavo del cantiere e il fumo dei camion:
guardi che respiravo benissimo, non creda,
poi dopo a casa certe volte mi prendeva la paura
di morire ma questo è già un altro discorso:
avevo sette anni e sapevo com’era
il terracantieremotocarroluce,
era un paradiso perduto mi creda,
queste erano le mie passeggiate verso sera
quando avevo sette anni le prime volte che mi lasciavano
andare in giro da solo:
strisciavo il dito su certi muri che sembravano grattugie
per farmi sanguinare, per lasciarci del mio:
perché volevo essere terracantieremotocarroluce
e invece ne venivo allontanato,
pian piano ne venivo allontanato
e sono qui, adesso, però nell’angolo del terrazzo
dico adesso 45 anni dopo in un altra città
c’è una pianta in un vaso e il muro scrostato
con la luce radente della sera fa un poco di odore
simile, un poco simile, sa, dicono l’infanzia,
cosa vuole mai, io la cerco in un angolo umido:
quell’odore, sa, che tutto sta insieme,
il motocarro, il cantiere, l’erba scarsa, la radice
tagliata, io non posso sapere se lei sa,
respiro uguale, guardi respiro bene,
poi a casa certe volte mi prende la paura
di morire, vede che non cambia niente
a sette anni o adesso è lo stesso
o no, non è lo stesso ma vede non c’è una parola
che prenda insieme quello che si sente,
sono solo pezzetti e non è mica detto
che messi in fila dicano la cosa,
le parole sono tutte così generiche:
io non saprò mai dirle, signora professoressa,
com’è il terracantieremotocarroluce
e come posso ritrovarlo stasera sul terrazzo:
figuriamoci se posso dirle che cos’è l’infanzia,
figuriamoci se posso dirle che cosa è adesso.


Da Una città, Edizioni Manifattura Torino Poesia, 2010.

Ricordo d’infanzia

07 sabato Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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Tag

corde di passaggio, infanzia, la parola rinvenuta, poesie del Novecento

                                     Sí, tu niñez: ya fábula de fuentes.
                                                                Jorge Guillén

C’era, poco distante da Vercelli,
una grande foresta. A torso nudo
m’inoltravo nel verde, e mi colpiva
il sole, che oscillava sulle foglie.
C’era una chiazza d’acqua che agitava
bolle di sabbia, e nasceva un ruscello
che rallentava in piccoli laghetti.
Molto lontano, il croscio di una cava.
C’era un sentiero nitido, compatto
di terra bianca fra due cigli d’erba:
di colpo si perdeva sul ghiaione
sparso di secchi rami calcinati.
Il fiume scintillava e scivolava
vegliato dagli stridi degli uccelli.
Sopra il filo dell’acqua, qualche uomo
stava in piedi, qualche volta, fissando.
Spingevo piano la mia bicicletta
perché non disturbasse. Mai nessuno
disse sconce parole.


Da Corde di passaggio, Genesi Editrice, 1984; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

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