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Carlo Molinaro

~ poesie e altre cose

Carlo Molinaro

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L’abbraccio analfabeta

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, una città

Quando uno non ha abbracciato nessuno
da giovane, per anni, per decenni,
perché bloccato, per l’educazione,
per timidezza, per la solitudine,
perché in famiglia non si usa o per altri
motivi, quando finalmente abbraccia
– perché, a un’età qualsiasi, succede
che si sciolgano i nodi – allora lui
mentre abbraccia, è come i sordomuti
quando imparano col metodo vocale:
fanno vibrare le corde e ci contano
di emettere quel suono, ma non è che lo sentono:
guardano l’altro e se l’altro ha capito
sono felici: ci sono riusciti,
con l’impegno e il puntiglio, a fare il suono.

Così l’analfabeta degli abbracci,
quando finalmente si decide,
non ha gesti spontanei, studia come
muovere il braccio, la spalla, come stringere
di più o di meno, è stupito e impaurito
– benché felice – del contatto del corpo
sul corpo. È felice, è più felice di altri
che hanno sempre abbracciato, fin da piccoli:
è felice, è una conquista: ma recita
l’abbraccio, è in ansia che gli venga bene,
in pratica lo mette in scena, e gli altri
se ne accorgono, a volte se ne accorgono
e credono che sia un abbraccio finto:
invece è il più felice degli abbracci:
lui ci è arrivato per strade difficili
e quasi piange mentre riesce a fare
ciò che per altri è una cosa normale.

Se incontri uno così, devi capire
che non è finto, è il più vero dei veri:
lui finge ciò che veramente fa
perché non lo sa fare senza fingere:
è un po’ come il poeta di Pessoa,
ma è così vero che dopo l’abbraccio
riuscirebbe a volare per la gioia:
però nessuno se ne accorge mai
perché, come l’abbraccio, anche lo sguardo
e gli altri gesti sono troppo incerti,
sgrammaticati, come di straniero,
e si resta perplessi, diffidenti.
Sono persone che fanno fatica
nelle cose più semplici, che mai
ti aspetteresti. Poi da soli in casa
cantano, ridono, scrivono versi.


Da Una città, Edizioni Manifattura Torino Poesia, 2010.

Le cose più importanti

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore respinto, amore vissuto, cose di dentro, scenari, una città

La fontana che piace ad Antonella
sul lungomare di Chiavari, le piumette
nelle buste di Diletta, le bolle
di sapone palleggiate con Clara,
un bicchiere d’aloe con Romina,
un disegno di nei sul seno d’Eva,
i passi di Marì per via del Campo,
Claudia che si riprova gli orecchini
e poi sì, sì lo so, sposarsi, fare figli
e far crescere i figli e lavorare
e guadagnare i soldi ed ammalarsi
e poi morire, sì lo so, ci sono
cose più serie. Ma credo che se un giorno
sarò immobile tra fiale e fleboclisi
(Dio non voglia: vorrei morire di schianto
ma non ci è dato scegliere) quel giorno
rappreso, opaco, senza più speranza,
l’ultima ombra di sorriso sarà
per la fontana che piace ad Antonella,
per queste cose futili che ho detto
qui nei primi otto versi e per le altre
che non elenco: perché allora è vietato
ammettere che infine sono queste
le cose più importanti?

Forse si fanno tutte le fatiche,
forse si fanno e si crescono i figli
perché anche loro possano domani
avere bolle, piumette, fontane,
passi, orecchini, disegni, bicchieri.

Se no, perché?


Da Una città, Edizioni Manifattura Torino Poesia, 2010.

Il terracantieremotocarroluce

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, infanzia, una città

No, vede, in questa sera diversa, ulteriore,
lo sento, sa, come è inutile raccontare:
eppure non c’è altro da fare,
devo scrivere il tema, professoressa:
sono rimasto un momento questo pomeriggio
mezzo assopito sul letto e ho sognato di essere
nella strada su cui fuggiva il motocarro
arrugginito e a destra c’era la voragine
del cantiere e a sinistra l’asfalto, e in mezzo
un ciglio rado d’erba, qualche fiore minimo
e l’odore che lasciava il motocarro
aspro, di ferro e carburante bruciato
e l’erba, e tutto insieme
era da esplorare e respirare
(non c’era differenza fra esplorare e respirare):
anche allora la sera cominciava dalla terra
scoperta della buca che si faceva umida
e scura e rasa dalla luce scarsa
sulle scabrosità che si alzavano come pustole:
tutto era insieme, non è che fosse
umida e poi scura e poi rasa dalla luce,
era qualcosa che è questo insieme indivisibile,
professoressa, è per questo che nei temi
non uso gli aggettivi, lei mi rimprovera,
ma gli aggettivi sono talmente generici:
umida e scura e rasa ma veramente
non era nessuna di queste cose, no,
era quello che sentivo nella bocca passando,
so benissimo com’era:
tornavo a casa agitato e i miei «cosa hai fatto?»
e io «niente» e passavo per un bambino scorbutico
ma non era per cattiveria era perché
non c’erano le parole per dirlo
e non ci sono neanche adesso, signora,
e soprattutto gli aggettivi no,
gli aggettivi sono troppo fuorvianti,
terra umida lei chissà cosa pensa:
magari i campi ubertosi o l’irrigazione:
no vede quella terra era dura compatta,
come dire, l’umido ce lo metteva la sera
con lo scuro o forse, sa, ce lo mettevo io,
perché altri testimoni avrebbero riferito
diversamente, avrebbero detto
«guarda che bella sera d’estate c’è venuta»
oppure «che quartiere di merda con tutti i lavori di scavo»,
ma quel ciglio con poca erba e qualche minimo fiore
fra quell’asfalto sgranato, sa, quello grezzo
e la terra, aveva un odore che i fiori
erano la stessa cosa del motocarro,
petali di benzina, erba arrugginita,
ma non lo dico in senso negativo:
vede com’è difficile professoressa,
era meraviglioso che tutto stesse insieme,
le giuro era un profumo meraviglioso
quello che filava dietro il motocarro,
qualche radice che spuntava dal taglio
dello scavo del cantiere e il calore
del giorno restava, ma era freddo e la luce
c’era ma diventava scura, vede quanti aggettivi
non funzionano, anche gli altri dettagli,
rumori di ruote e di campane
e più in là l’orizzonte era tutto macchiato
di fumo dei camion, lei non ha idea
di quanto sia bello quell’arancio pallido col nero
del fumo e la terra che sosteneva il motocarro
e me, le mie scarpe, tutto aveva un odore congruente:
ma vede che mi disperdo, sarà contenta che ho usato
più aggettivi però io no, sa, a ogni respiro
mi sembrava di avere già perso il filo
come se un attimo prima ci fosse qualcosa
a cui non ero stato attento abbastanza, ma almeno
restava quella luce-odore-scuro chiaro,
vede, io sapevo perfettamente che cosa teneva uniti
l’erba e il motocarro e la fila delle case
con lo scavo del cantiere e il fumo dei camion:
guardi che respiravo benissimo, non creda,
poi dopo a casa certe volte mi prendeva la paura
di morire ma questo è già un altro discorso:
avevo sette anni e sapevo com’era
il terracantieremotocarroluce,
era un paradiso perduto mi creda,
queste erano le mie passeggiate verso sera
quando avevo sette anni le prime volte che mi lasciavano
andare in giro da solo:
strisciavo il dito su certi muri che sembravano grattugie
per farmi sanguinare, per lasciarci del mio:
perché volevo essere terracantieremotocarroluce
e invece ne venivo allontanato,
pian piano ne venivo allontanato
e sono qui, adesso, però nell’angolo del terrazzo
dico adesso 45 anni dopo in un altra città
c’è una pianta in un vaso e il muro scrostato
con la luce radente della sera fa un poco di odore
simile, un poco simile, sa, dicono l’infanzia,
cosa vuole mai, io la cerco in un angolo umido:
quell’odore, sa, che tutto sta insieme,
il motocarro, il cantiere, l’erba scarsa, la radice
tagliata, io non posso sapere se lei sa,
respiro uguale, guardi respiro bene,
poi a casa certe volte mi prende la paura
di morire, vede che non cambia niente
a sette anni o adesso è lo stesso
o no, non è lo stesso ma vede non c’è una parola
che prenda insieme quello che si sente,
sono solo pezzetti e non è mica detto
che messi in fila dicano la cosa,
le parole sono tutte così generiche:
io non saprò mai dirle, signora professoressa,
com’è il terracantieremotocarroluce
e come posso ritrovarlo stasera sul terrazzo:
figuriamoci se posso dirle che cos’è l’infanzia,
figuriamoci se posso dirle che cosa è adesso.


Da Una città, Edizioni Manifattura Torino Poesia, 2010.

Stelle vicine

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore respinto, una città

Non m’intendo del cielo. Riconosco
costellazioni ogni tanto, per caso.
Una che so è la cintura d’Orione:
l’ho ritrovata subito in tre nei
che hai fra seno e seno.
Tre puntini
in fila verticale, che s’inclinano
– scendendo giù – dalla parte del cuore.

Se con la mano li sfioro, scommetto,
ti s’increspa la pelle. Queste stelle
le amo meglio che quelle del cielo:
perché le posso toccare col dito
– se tu permetti – e loro mi rispondono.


Da Una città, Edizioni Manifattura Torino Poesia, 2010.

La scusa

07 sabato Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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scenari, una città

Il cielo grigio al terrazzo è una scusa:

siamo a fine novembre, quale cielo
pretenderesti? La malinconia
non è questo sfilarsi di stagioni
dalla matassa della vita: è
perderle nella svoglia d’un lavoro,
sentire muta l’anima che ieri
cantava, non sapere se domani
potrà cantare ancora e soprattutto
perché non canta oggi: dubitare
della canzone stessa.
È impallidito
l’intonaco dei giorni. Non è stato
il tempo a consumarlo, ma l’assenza:
è tinta delicata, è arricciatura
da mantenere e ritoccare spesso
con spatola e pennello. Ciò che dura
non è perché sia forte o resistente:
è perché c’è una mano che amorosa
ripara, aggiusta, ricolora, inventa:
disegna ghirigori sulle crepe
per farne un gioco, una scoperta nuova:
un arabesco da sgranarci gli occhi.

Il cielo grigio al terrazzo è una scusa.


Da Una città, Edizioni Manifattura Torino Poesia, 2010.

Ti leggevo poesie nudi nel letto dopo l’amore

07 sabato Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore vissuto, una città

Ti leggevo poesie nudi nel letto dopo l’amore:
non avevamo vent’anni, non era tanto tempo fa,
era oggi pomeriggio e avevamo più di cent’anni
fra te e me. Ti leggevo poesie nudi nel letto:
non è un ricordo lontano perso nelle nostalgie,
era oggi pomeriggio con un cielo grigio e azzurro
mescolato dal vento – e i colori vivaci sul terrazzo.
Non avevamo vent’anni, non era un tempo lontano,
era oggi pomeriggio ed era la prima volta
in vita mia che leggevo poesie nudi nel letto,
tu la prima volta che qualcuno te le leggeva,
e sono nudo al tavolo adesso che scrivo
mentre tu sei quasi addormentata sulle lenzuola spaiate
di due verdi diversi, recuperate insieme
per questa casa che sembra di studenti squattrinati.
È di oggi pomeriggio la luce sui coppi dei tetti,
le mansarde di fronte abitate da slavi e magrebini;
se dico questo secolo intendo dire il ventunesimo,
il nostro: nel Novecento non t’ho conosciuta ma ora
ti ho letto poesie per la prima volta nudi nel letto,
le lenzuola spaiate di due verdi diversi
spinte via dalle gambe, fresche ancora del nostro sudore.


Da Una città, Edizioni Manifattura Torino Poesia, 2010.

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