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Carlo Molinaro

~ poesie e altre cose

Carlo Molinaro

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Giovane madre

09 mercoledì Mar 2016

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la parola rinvenuta, ordinari splendori, scenari

Giovane madre coi capelli rossi
(quel rosso dolce che inclina al dorato)
sulle ginocchia ha il bimbo
di forse un anno che si gira intorno
ride sorride si rabbuia ride.

Giovane madre vestita normale
(un pellicciotto forse démodé)
sul treno per Novara
seduta al corridoio, col marito
in piedi, un giovanotto ricciolino.

Un bel bambino sano. La sua mamma
ha la fede nuziale all’anulare
e il suo papà lo guarda
con orgoglio impacciato, muove un dito
davanti a lui, quasi benedicendo.

Giovane madre che va tutto bene
– così parrebbe. Ma dentro i suoi occhi
(di cui non ho percepito il colore)
trovo un dolore chiuso:
non è soltanto una malinconia,
è un corrodere stretto, una nascosta
ansia mortale che la tenerezza
delle mani sul bimbo non può sciogliere.

Ha un opaco che segna sulla pelle
la perdita d’un sogno,
una stanchezza fra la guancia e il collo:
e per un colpo di tosse si piega
come a celarsi al mondo.

I passeggeri in vena di ciarlare
sono larghi d’assensi e complimenti
per tutto quel quadretto familiare:
se ne ristorano il cuore e la mente.

Allora io solo vedo?
Forse vaneggio, forse è mia follia
ammalata di male.
No, m’incrocia
lo sguardo della donna sola, un breve
inutile bagliore d’impaurita
intesa, nello scendere dal treno.


Da Ordinari splendori, Edizioni Joker, 1998; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Il grido

24 martedì Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, entro incerti limiti, la parola rinvenuta, letteratura

Ah sì, Sandrina, sì, la poesia
devi intonarla con tutta la voce,
con tutte le parole che ci hanno
visti, pensati, toccati, inventati.

C’è un amore che lega chi non vende
anima e sogno, fa che si conosca
chi non s’è mai conosciuto, frantuma
i vizi vecchi, scardina le porte
versando luce agli ospizi più bui:
e prende a calci in culo le poetesse
dei ciclamini in vaso, i professori
farmacisti di sillabe, i cialtroni
timorosi di non ben figurare.

Ah, Sandrina, il più grande peccato
è regolarci il sangue nelle vene
perché non corra troppo, è lasciare
inascoltato un brivido, esitare
mentre una nota fugge che mai più
ci sfiorerà l’orecchio. Rinunciare
è il più grande peccato, bimba mia!

Se una brezza sparpaglia i suoi sussurri
vibrando piano a spigoli di case,
cori di foglie, musiche di luci,
è così poco quel che ne prendiamo!
Infausto chi non sente! Come puoi
andare via senza che salga un pianto
a liberarti gli occhi, senza che
esultino di gesti le tue mani?

Questa è la cosa che chiamo poesia:
il mio petto che s’apre come vela
a raccontare ogni minimo soffio
o feroce bufera, la mia schiena
tesa e paziente come un predatore
dal cuore vasto e fragile. Trovare
la cicatrice che in ogni parola
ha segnato il coltello della vita
e farla sanguinare, perché gridi.


Da Entro incerti limiti, Edizioni Joker, 2002; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Parabola

10 martedì Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore, cose di dentro, il gioco che vale la candela, infanzia, la parola rinvenuta, poesie del Novecento, Premio Montale

L’anima mia è un quadro che dipinsi
ad occhi chiusi in un tempo che non so,
e il soffio della terra ne ha fissato
piano piano i colori.

Il bimbo tenne il braccio
ripiegato sul volto, perché i bimbi
hanno paura. Ma l’uomo, più forte,
osò aprire le mani e guardare.

Allora quasi nulla che domestico
mi fosse io vidi. Solamente, a volte,
un suono un volo un arco una fanciulla
trovo che già conobbi
alla mia tela, forse
quando ancora ero altrove.

E disperatamente m’innamoro:
come l’esiliato quando legge
all’improvviso nel porto straniero
dove cammina pensoso fra gli odori
un nome di sua lingua su una prora.


Da 6 poeti del Premio Montale – Roma 1985, All’Insegna del Pesce d’Oro, Scheiwiller, 1986; poi  ristampata in Il gioco che vale la candela, Genesi Editrice, 1988; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

In fondo, t’ho scopata

10 martedì Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore vissuto, cose erotiche, la parola rinvenuta, sospeso sogno

In fondo, t’ho scopata. A dirla tutta,
t’ho pure messo la mia mano dentro
fino alle nocche, nonché un dito in culo,
e la lingua dovunque. T’ho scopata
persino senza guanto. Cosa dunque
voglio di più? Potrei fare una tacca
sul bastone: sarai la quarantesima
o giù di lì, non è nemmeno male
per un intellettuale un po’ impacciato,
quello che sono e sono sempre stato.

Farò così. Dovrò dimenticare
che sono cotto, sono innamorato,
ti penso sempre, sono peggio che un
sentimentale giovine romantico…


Da Sospeso sogno, Edizioni Joker, 2003; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Il guardiano dei sogni

10 martedì Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore vissuto, la parola rinvenuta, scenari, sospeso sogno

Tu eri un sogno. T’ho sognata una notte
e m’hai riempito il sonno di colori.
Ma quella notte il guardiano dei sogni
– il guardiano che tiene chiuso l’uscio
fra sogno e realtà – s’è addormentato.
S’è addormentato lui! Tu sei sgusciata
lesta fuori e il mattino t’ho trovata
nel letto accanto a me. Che cosa fortunata!
Adesso tu sei la mia fidanzata.


Da Sospeso sogno, Edizioni Joker, 2003; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Le vostre vulve e il mare

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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allo sbocco del vortice, cose erotiche, la parola rinvenuta, poesie del Novecento

Le vostre vulve odorano del mare
più vicino: dell’acqua che si scrolla
in mille sprizzi dalle reti alzate
o si versa dai secchi sulle vasche
del mercato del porto, e ricóla
a lucidare le pietre impudiche
tornando al mare. Le vostre fessure
umide come uno spacco di scoglio
dove un rigagnolo nutre conchiglie
si fanno larghe per il mio frugare
e premere e riempire quando cerco
di congiungervi i cieli coi piaceri
e con i vischi delle notti dove
la nera luce gorgoglia miraggi
con le scaglie dei pesci sviscerati.

Ragazze dalle vulve penetrabili
come golfi o lagune o come il vero
amore, profumate d’infinito!

Qualche goccia, impigliata al vostro pelo
o alle cosce guizzanti, s’addomestica
e fa meno lontano il dio lontano
che regna, forse, nei mari invisibili.


Da Allo sbocco del vortice, Edizioni Joker, 1996; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

L’armistizio

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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adolescenza, la parola rinvenuta, la parola vacante, sonetto

Lattiginosa quiete del piazzale
che sgombrano di gente ottobre e l’ora
tarda di cena e del telegiornale.
Oh, non fa bene stare fuori ancora!

S’affretta il vecchio in bici ed il fanale
gli umidi mucchi delle foglie indora.
Corre un ragazzo, apre una porta e sale
al desco e al motteggiare che ristora.

Traversa nella nebbia un alitare
di mosto, di marciume e di motori.
L’ultimo bus s’affaccia e riscompare.

Notte d’autunno, amabili sapori.
Marietta già comincia a sparecchiare.
No, non fa bene stare ancora fuori.


Da La parola vacante, Genesi Editrice, 1981; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Natale 2001

08 domenica Nov 2015

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cose di dentro, entro incerti limiti, la parola rinvenuta

Un sole freddo brilla sul terrazzo:
traversando i vetri fa vedere che sono
pieni di piccole macchie di polvere.
Pende la sera precoce d’inverno
come un tendone da chiudere, ora
che finisce una recita imperfetta
e la rimpiangeremo nella notte
dove ci sembra che ululi il vuoto
ma è solo il nostro orecchio che c’inganna
perché il vuoto non ulula, il vuoto non è.

Ci dà più pace un addensarsi
di nubi grigie piuttosto che questa
bellissima giornata di dicembre:
il raggio d’oro ci traversa e noi,
– noi che siamo di un’altra materia
più vile e viva, Dio, più vile e viva! –
la cosa che vediamo illuminata
è il nostro sfarci, il nostro andare in nulla.


Da Entro incerti limiti, Edizioni Joker, 2002; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Il viaggiatore puntuale

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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cose di dentro, la parola rinvenuta, viaggio

                                        (in un viaggio a Mallare)

La modella che fa da salvaschermo
al calcolatore e l’altra modella
del calendario sul muro vicino
nella stanza di Cesare ricordano
(a me ricordano) la fidanzata
degli anni prima: le sembianze di Erica.
Mentre la foto di Erica vestita
e un poco sussiegosa sul ripiano
dello scaffale me la fa pensare
nuda, ma nuda molto, spalancata.

La casa diroccata di Giovanna
o Maddalena dove sono nati
o cinque o sei o sette o chissà quanti
figli di gente di passaggio siamo
riusciti a ritrovarla sopra Bormida.

Mac gioca bene a scacchi e la chitarra
passa di mano in mano. Le canzoni
sono di questi e d’altri tempi. C’è
una sola ragazza, come spesso accade
in certe sere adesso come allora.

C’è un viaggiatore che scende dal treno
ad Altare, un solo viaggiatore
dal solo treno che ferma, e sono io.
Il giorno dopo sullo stesso treno
risalgo solo io. Io proseguo.
Non so per dove, ma proseguo sempre.

Vado da solo nella notte e a casa
non c’è Antonella né Rosa né Giulia
né Federica né un’altra ragazza
ad aspettarmi. Non sono un uomo facile
da aspettare – e questo nonostante
io sia sempre puntuale. Della casa
di Maddalena o Giovanna sul monte
restano poche pietre. Il cacciatore
ci chiede con sospetto se per caso
siamo di quella gente. «No», risponde
Cesare, e nego anch’io, ma è una bugia.

È una bugia: io sono della gente
che non ha gente, io sono della casa
che non ha casa. Anche un mucchio di pietre
tra faggeta e castagni non è che una soglia
da oltrepassare. Io proseguo sempre.

Il viaggiatore non apre le porte
per entrare ma per passare oltre.

È buono il desco della casa a Mallare
con gli agnolotti e l’uva e il gorgonzola.
È buono il braccio di Antonella il sabato
stringendoci nei portici a Torino.
È buono il gioco di Cristina al parco
fra l’altalena e il castello di legno.

A me ha rubato il cuore quell’immensa
vita che c’è là fuori. Io proseguo
il viaggio. A ogni partenza c’è un rimorso
o un desiderio vago di tepore.
Devo partire perché il mio mestiere
è proseguire. Ma con tutto ciò
in ogni amore io arrivo puntuale.

Porto con me ripartendo da Mallare
due sacchi di castagne che abbiamo raccolto
in tre valli diverse – ma non si distinguono.
Porto parole e musica d’amici
e i discorsi di Cesare e la voce
anche della barista che versa una spuma
d’arancia ad Altare, e tante cose, troppe
per disegnare una vita. Ma vivo
lasciando che il disegno si disegni
da solo e – come si usa nelle fiabe –
ci entro dentro e passo oltre. Tu
puoi seguirmi se vuoi. La solitudine
non è un vezzo d’artista – è soltanto
una cosa che accade. Non è che
io la voglia o ci tenga.
Io sono puntuale.


Da La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Quaranta frammenti per Monica

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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amore e morte, la parola rinvenuta, poesie del Novecento

alla memoria di Monica Iozza (1970-1992)

                                               a Lucia e Francesco
                                               perché un giorno capiranno
                                               che gli amori, gli amori veri
                                               non si contraddicono mai

1.
Il barista di via Valperga è anziano,
asciuga le tazzine e le ripone.
Chissà che cosa ha fatto nella vita,
forse soltanto questo, o poco d’altro,
eppure è anziano e vive ancora, e pensa
(forse) chissà che cosa. A questo tu
non ci sei stata, ad altro non riuscivo
a spingerti la mano, e dire che
avevi nella mente l’infinito.

2.
Quando ti alzavo il mento con il dito
tu socchiudevi gli occhi, sorridevi.
Ma poi lasciavi che il volto pesasse
sulla mia mano e accennavi appena
un inclinare il capo per diniego,
come chi vuole credere e non crede.

3.
Ma lo sapevi che simile a un Dio
io mi sentivo quando t’ero accanto
e t’ascoltavo bisbigliare piano
poche lievi parole e il cuore alzava
un clamore di gorghi nel torace
che m’increspava in brividi bianchissimi
la pelle come un’acqua vittoriosa?

4.
Per tre anni non t’erano venute
le mestruazioni: la droga le blocca,
mi spiegavi. Ma dopo quattro mesi
senza eroina ti sono tornate:
me l’hai detto abbracciandomi con gioia
così vera e con voce così forte
al bar di via Coppino! La signora
portandoci i bicchieri avrà pensato
che per stavolta non m’ero inguaiato.

5.
La signora che ci prendeva in giro,
che diceva che avevi quindici anni;
così le hai fatto persino vedere
i documenti: quasi ventidue!
La signora che il giorno di te morta
appena sul selciato a pochi metri
dal bar, mi ha visto e me l’ha letto in faccia
e mi ha chiesto lo stesso: «Non è mica
la ragazzina che veniva qui
con te? O Dio, o Dio!». Ai ventidue
anni è mancata una settimana.

6.
Ci tenevamo per mano, bravini,
i pomeriggi quando stavi bene
senza pastiglie, per i marciapiedi
della mia zona, come fidanzati:
ed eravamo proprio belli e fieri.
Anche se parlavamo di mia moglie,
dei tuoi colloqui per farti riaccogliere
nella comunità del Gruppo Abele,
di ansie, di speranze, di sconfitte,
di vie tortuose: la realtà è complessa.

7.
Una notte d’agosto c’incontrammo
per caso al Valentino, sorridemmo,
ci parlammo e così ci conoscemmo:
un gioco del destino. Non ci volle
molto a capire che eravamo uguali,
io marito e papà e lavoratore,
tu puttana e drogata e ragazzina.
Due anime ferite quanto basta
per capire che tutto è provvisorio,
che l’amore nessuno può spiegarlo,
che Dio è lontanissimo se c’è:
senza parole s’intendono al volo.

8.
Col mio cantare non intenerisco
gli animali né gli alberi e nemmeno
so ammansire gli umani: figuriamoci
quanto saprei commuovere Persefone!
Mi spiace. Se potessi ci verrei
e non sarei cretino come Orfeo:
ti condurrei senza voltarmi indietro.
Abbiamo esercitato la pazienza
per lenti labirinti – poi un colpo
di sbieco ci ha mozzato la speranza.

9.
L’ascensore è scappato nell’istante
che tiravo la porta: per un soffio
qualcuno su da un piano l’ha chiamato
prima che io l’aprissi. Mi hai guardato
stupita e d’improvviso con un guizzo
nella luce ricurva dell’androne
le nostre braccia erano allacciate
e le bocche premute come fosse
stato da sempre: il nostro primo bacio.

10.
La morte non lo spezza, questo amore.
Però era meglio portarti le rose
ai nostri appuntamenti per la strada.
Al cimitero è un punto di colore
nella desolazione vasta, serve
a consolare poco, poco: tu
sei nel sottile vuoto invalicabile.

11.
Il tanto detto senso della vita!
C’è chi lo trova facile e chi no.
Chi facile: magari non lo cerca
nemmeno, non si è mai posto il problema
e sta bene così, beato lui.
Chi no: dipinge affreschi, fa poemi,
beve, si droga, vola dai balconi.
Ma non si cambierebbe con quell’altro.
Grande mistero o semplice cazzata,
non so. Quello che so è che non dovevi
volare dal balcone: a quel tuo sangue
non c’è compensazione, non c’è nulla
che si possa più sciogliere o legare.

12.
Vorrei disfarmi nell’aria, nell’erba,
per mischiarmi con te: ma rimanere
io tutto intero, io quello che sa leggere
le righe fitte nel tuo cuore bianco
e le trascrive nelle tue pupille,
io l’umile artigiano che dà forma
al tuo caos d’amore così che
la gioia ti sussulta di stupore
quando vedi freschissima te stessa.

13.
Le povere parole che cercavi
singhiozzando al telefono, affannosa,
fra le voci e i rumori dell’ufficio
non riuscivo a capirle, con che rabbia
dicevo Monica, parla più forte,
e non potevi e te ne disperavi,
e io prendevo un permesso e venivo.

14.
Siamo astigmatici all’occhio sinistro,
ci piacciono i budini e detestiamo
il riso e latte, conosciamo gli autobus
e le canzoni di Lucio Battisti,
poi tu m’hai insegnato i REM e i Queen,
io Fabrizio De Andrè e Tommaso Moro,
e ci baciamo con lo stesso gesto
un po’ incerto del collo. Era bellissimo
scoprire quello che avevamo uguale.

15.
Sono tornato al chiosco al Valentino,
è già di nuovo estate. Neanche un anno
siamo stati vicini. Ora mi sembra
che tu sapessi. Eppure progettavi
(nei giorni più felici) di riprendere
la scuola, il triennio da infermiera.

16.
Me la mostravi quasi con orgoglio,
la pizzeria verso le Molinette:
avevi lavorato lì davanti
per anni, ti eri fatta una clientela
buona, da piccolissima puttana.
Io che so le lusinghe della notte
condiscendevo al tuo non rinnegare,
a quel tuo protestare che anche è vita
quando un faro moltiplica le ombre
nel soffio misterioso della nebbia.

17.
Nei primi giorni in via Leoncavallo,
nella comunità, nella stanzetta
ci lasciavano stare insieme soli,
e io t’addormentavo piano piano
sul mio torace, seguendo il respiro
che si faceva quieto e regolare
senza bisogno di pastiglie. Poi
si sono organizzati con le regole
e non ho più potuto. A darti il sonno
ci pensavano altri in altri modi,
finché un mattino sei scappata via.

18.
Eppure io ti ho veduta serena:
sgranavi gli occhi belli di nocciola
puntandoli nei miei – anche il colore
degli occhi abbiamo identico – rideva
tutto il tuo viso di bimba furbetta
e il torbido sembrava andare via.
È accaduto, ti ho vista, io ti ho vista,
ti ho vista vivere! Sia maledetto
il braccio che ti ha risospinta sotto.

19.
Quel tuo corpo sottile di fanciulla
a me non lo celavi se il mattino
stavo con te presso la doccia oppure
ti aiutavo a vestirti. Ma con gli altri
protestavi: Ci sono abituata
a star nuda con tutti, ma ora basta,
prima di entrare dovete bussare!
(Come un apologo sulla purezza.)

20.
Io ci capivo poco e gli altri niente
della tua voglia che dentro la scorza
brillava come un diamante: la voglia
di essere. Di essere: di essere.
Che rovina, che scempio abbiamo fatto.
Come tutto rimane imperdonabile
nel tranquillo smottare della storia.

21.
Dalle narici, dalla bocca il sangue
si allargava pastoso, faticoso,
lento sul marciapiedi. Rannicchiata
un poco, quasi come ti mettevi
per riposarti. Non hanno chiamato
nemmeno un’ambulanza, non so chi
ha constatato subito il decesso.
Avrei voluto sollevarti il capo.

22.
Tu che correvi dietro al trentaquattro
da una fermata all’altra e lo prendevi,
e certo io non rimanevo indietro:
ansimando contenti partivamo.
Ora la porta è chiusa e non ritorni.

23.
Cinque o sei paste con un cappuccino
mangiavi in piedi al bar se avevi fame
nei nostri giri fra i centri per tossici
e le unità sanitarie locali.
E non perdevi la pazienza mai.

24.
Ti sei comprata un balsamo per dare
più luce ai tuoi capelli biondo rame.
Non ne hai bisogno, ma è dolce pensare
che ti fai bella, che ti vuoi piacere.

25.
L’amore manda le scintille a caso
però non tutte divampano in fuoco:
molte ne spegne l’umido dei muri
che ripara gli affetti regolati.
Nei nostri cuori con sete di vento
che asciugano allo spazio delle vie
crepita subito un fischio di fiamma
a gonfiare un incendio nuovo sempre.

26.
La meraviglia male si concilia
con la vita normale di famiglia.
Dobbiamo dunque rimanere soli?
Né tu né io ne saremmo capaci!
Forse per questo ci chiamano a rischio:
intendendo, presumo, il rischio loro.

27.
Invece tu sei scesa a capofitto
dentro la morte vera e nera. Chi
scriverebbe tu misera cadesti
o simili minchiate? Qui non c’entra
l’apparire del vero: è lo svanire
dello spazio, del tempo, della dolce
bellezza: perché il vero non esiste.

28.
Mi aspettavi seduta su un gradino
o accucciata in un angolo. Era strano
il tuo modo di stare accovacciata
in un posto qualsiasi, in attesa:
t’appoggiavi a te stessa in equilibrio.
Poi spiccavi la corsa verso me
con un guizzo di lepre disturbata.

29.
Cinque o sei volte ti sei fatta in macchina
con me; due volte a comprare la roba
ci siamo andati insieme. Mi spiaceva
vederti avvelenare, ma impedirtelo
non era mio diritto e ti parlavo
e ti restavo accanto anche così.
Sarebbe stata un’assurda violenza
lasciarti sola, dirti che non sto
con chi si droga. Di tali sentenze
superiori ne hai già sentite troppe,
s’è visto poi con quale risultato.

30.
Se i capelli ti andavano sugli occhi
io li spostavo adagio e tu ridevi
come il monello che fa capolino
dal nascondiglio nel vivo del gioco.

31.
Non eri sieropositiva. Ma
celavi qualche immunodeficienza
nell’anima: un virus corrodeva
le tue difese contro la caligine
del quotidiano, della cosa santa
o scialba che si dice sia la vita.

32.
Se fosse stata una bara di vetro
e poterti svegliare con un bacio:
ma vedi, fin da piccoli c’ingannano
di favole, ed è pericoloso
fidarci: Peter Pan poteva bene
scomodarsi a sorreggerti nel volo,
e invece no: all’Isola, se c’è,
si arriva dietro il sangue e dietro il nulla;
e questo, dopo tutti gli altri inganni,
come riusciamo a crederlo, a sperarlo?

33.
Fare di te una brava ragazza:
questa è la coglionata che pensavano.
L’hai lasciato persino a testamento
(un biglietto che hai scritto in un mattino
di sconforto, in un giorno di discesa)
che non era così: Non voglio essere
ricordata come brava ragazza
perché voi vi siete accorti di come
stavo dentro, ma cosa avete fatto?
Niente. Addio. Monica. Vi voglio
bene
. Non t’eri uccisa quella volta,
avevamo ripreso una speranza,
ma forse poi non è cambiato nulla.

34.
Mi rimane il sapore incomponibile
dei tuoi baci. Baci non calcolati,
baci senza progetto, baci dati
proprio quando non ti servivo a nulla.
Non mi hai usato, mi hai voluto bene:
questo sento il bisogno di gridarlo
a chi diceva che tu non sapevi
fare altro che pigliarci per il culo.

35.
Ogni sorriso è diventato spada:
ogni felice immagine di te
mi trafigge improvvisa se riaffiora
dal tuo lago di sangue. Troveremo
tutto purificato ciò che fu
gioia? Potremo rigoderne insieme
per sempre là? Quel cielo, che partecipa
ad ogni amore, ciò che ha preso rende?

36.
Però quel mezzo prete mezzo arabo
e mezzo livornese che ti ha morsa
dopo averti incantata, come fanno
le serpi, qualche germe ha seminato
in te del suicidio. Lui che era
il capogruppo, l’uomo che doveva
guidarti dentro la comunità.
(Tu non porti rancore, io vorrei
che qualcuno portasse più attenzione.)

37.
Mi hai trascinato a fare una colletta
alla stazione. Credevi che fosse
cosa nuova per me? L’avevo fatto
proprio nell’anno che nascevi tu,
che io giravo Amsterdam e Alassio
senza denaro. Ma stavolta un poco
d’imbarazzo l’ho avuto. Il tempo e il modo
ci cambiano; e poi le cento lire,
hai visto, a me non le dà più nessuno.

38.
Anche per questo m’hai voluto bene:
perché litigavamo come zingari
davanti a Porta Nuova, piangevamo
e gridavamo e poi ci baciavamo,
con la gente che quasi ci accerchiava,
e nemmeno una volta m’ha sfiorato
l’idea della mia reputazione.

39.
Non dovevo lasciarti andare sola
a quel colloquio. L’ho fatto perché
sembrava un bene che l’iniziativa
fosse del tutto tua, che tu mostrassi
alla comunità che eri tu
a volerci davvero riprovare.
Il mio errore mi sta sempre davanti.
Sei tornata sconvolta; m’hai cercato;
non m’hai trovato; ti sei ammazzata.

40.
Il visino paffuto, il sopracciglio
denso e bene scolpito, il naso piccolo,
il tuo sguardo che sempre interrogava
con scettico stupore: ancora interroga
da una foto senz’arte, fototessera
fatta per caso in cabina automatica
la settimana prima di morire.
L’ultima foto, ma chi lo direbbe?
Guardi con tanta voglia di giocare!


Pubblicata una prima volta anonima nel 1992 dalle Edizioni Cultura e Società; pubblicata in libretto dalle Edizioni Joker, 1997; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Il posteggio dei camion

08 domenica Nov 2015

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allo sbocco del vortice, la parola rinvenuta, poesie del Novecento, scenari

Il posteggio dei camion, largo,
sterrato, con le macchie di grasso
a bollicine nere, ruvide, rotte,
e l’odore dei motori, i campi
intorno, la meliga, i rumori
liberi, staccati, la mia bicicletta,
qualche grossa latta arrugginita
piena d’acqua anche quando non piove,
qualche straccio, qualche preservativo,
molte cose già sfatte, già ridotte
(non c’era ancora il rifiuto di massa
persistente di plastica, lattine
molli e colorate e stupide di adesso),
era uno dei miei mondi, uno dei tanti
che ormai non vale nemmeno la pena
stare a raccontarli, non interessa,
le mamme sono intente a fare igiene,
allontanano i figli da posti così,
anche nella memoria fanno pulizia,
vogliono tutto a posto, tutto bene
tutto chiaro tutto giusto tutto lustro.


Da Allo sbocco del vortice, Edizioni Joker, 1996; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Dopo lo scavo

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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a fior di sangue, cose di dentro, la parola rinvenuta, poesie del Novecento

Dopo questo odore intenso, le mani
immerse nella terra, le unghie
piene di terra (come una miscela
di cose ricomposte, conoscibili,
quasi, in forma di storia), per levarmi
i capelli dagli occhi uso il dorso
delle dita e l’odore si allarga
nell’aria, prende moto, si rigonfia
di uno scendere d’acqua non sensibile
dal cielo: il mio gesto è breve per
la sera che viene sbiadita e attutisce
il fuoco del tramonto con il fumo
della suburbe. Non c’è nessuna lingua
nemmeno all’orlo del cerchio, non c’è
nessuno sfogo, né uno sfiatatoio
che suggerisca altro spazio al di fuori.
Eppure l’arco del braccio dirada
le capsule del buio, sfilaccia
la patina viscosa di qualche tentacolo.
(Non è una soluzione. Non risana
né libera. Soltanto differisce,
ritarda, prende tempo come se
potesse davvero accadere qualcosa).


Da A fior di sangue, in Quaderni Paralleli di Nuova Poesia I, Guido Miano Editore, 1995; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Giovani alcolici

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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adolescenza, amicizia, entro incerti limiti, la parola rinvenuta

                                         a Giovanni dalla Zonca, detto il Vispo

Le sere di nebbia e inverno con l’amico
al Dopolavoro Ferroviario in corso Italia
a bere vino di scarsa qualità
per dimenticare ciò che neppure
s’era ancora vissuto: due ragazzi
in fuga tra quei vecchi ubriaconi lordi,
già vinti senza sapere neppure per che cosa
si sarebbe potuto combattere.
Era una tappa d’altre cinque o sei
osterie per cui ci avvelenavamo:
disposte a stella in un’ignobile Vercelli
dove il passato marciva col futuro
in una putrefazione calma, dove piccoli muri
sembravano invalicabili montagne,
e non sapevamo dove prendere il coraggio
per andare non sapevamo dove
a fare non sapevamo che cosa.
No, non sembrava vita buona, ma
altra fuga non c’era che il bicchiere.
Sento una tenerezza indispettita
– orfana persino del rimpianto –
per quella vecchiaia vissuta a sedici anni;
sono contento d’un po’ di precaria gioventù
trovato adesso in ben più tarda età.


Da Entro incerti limiti, Edizioni Joker, 2002; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Se tu sapessi

08 domenica Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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allo sbocco del vortice, amore vissuto, cose di dentro, la parola rinvenuta, poesie del Novecento

Se tu sapessi quanto cielo premo
nell’anima e che tiepido alitare
di lombrichi di terra e di radici
e quale acqua mi zampilla dentro
e come tremo al minimo variare
di un vento o di un sussurro allo svoltare
di un giorno e quale azzurro
si mescola ai miei rossi nelle vene
di grigio e come sudano gli asfalti
se accarezzo la notte, capiresti
che io sono un sentiero fra erbe alte
dove tu puoi passare e non fermarti.


Da Allo sbocco del vortice, Edizioni Joker, 1996; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

Ricordo d’infanzia

07 sabato Nov 2015

Posted by carlomolinaro in poesie

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corde di passaggio, infanzia, la parola rinvenuta, poesie del Novecento

                                     Sí, tu niñez: ya fábula de fuentes.
                                                                Jorge Guillén

C’era, poco distante da Vercelli,
una grande foresta. A torso nudo
m’inoltravo nel verde, e mi colpiva
il sole, che oscillava sulle foglie.
C’era una chiazza d’acqua che agitava
bolle di sabbia, e nasceva un ruscello
che rallentava in piccoli laghetti.
Molto lontano, il croscio di una cava.
C’era un sentiero nitido, compatto
di terra bianca fra due cigli d’erba:
di colpo si perdeva sul ghiaione
sparso di secchi rami calcinati.
Il fiume scintillava e scivolava
vegliato dagli stridi degli uccelli.
Sopra il filo dell’acqua, qualche uomo
stava in piedi, qualche volta, fissando.
Spingevo piano la mia bicicletta
perché non disturbasse. Mai nessuno
disse sconce parole.


Da Corde di passaggio, Genesi Editrice, 1984; poi ristampata in La parola rinvenuta, Genesi Editrice, 2006.

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