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ESILE
ESULE
Le parole civettano, sviano
per casuali suoni, fandonie.
Ti portano là dove vogliono loro
o là dove tu hai voluto che vogliano:
in sicure, per oggi, finzioni.
Ci siamo costruiti su un accomodante equivoco.
Esiste ciò che nomini.
Che scienza! Lo sapeva l’aborigeno:
dai un nome alle cose perché esse siano.
Un piccolo benevolo errore originale:
errata corrige:
dai un nome alle cose perché tu sia.
Può il tuo corpo essere stato
solo un gioco di ossa e di carne
vestito d’un peplo di parole insufficienti?
Né la pelle né il verbo contengono senso
eppure sento che è, che siamo, che sei.
Se tu sapessi come sono stanco.
Mi manca l’ombra nei tuoi occhi, il gesto
del tuo viso a guardarmi, la voce
stanca o impennata. Soprattutto manca
ciò che non so se sia mai stato: noi
non gli abbiamo dato nome:
non ci siamo fatti essere, ma
sento che è, che siamo, che sei.
È meglio chinarsi su cose mostrabili:
è fiorito esagerato il gladiolo sul balcone
e pende sul fico e su piante spontanee
infestanti – ma no, non le strappo, tranquilla.
Com’è delicata la tua mano sullo stelo.
Respiri bene, il polso è regolare.
Ti prendo il succo di frutta alla Coop.
Scritta nel 2022.