La bambina che guarda l’oltremare

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La bambina che guarda l’oltremare
scrive un libro poetico politico.

Non è il santino di una sventurata
ma una goccia di sangue sull’ago che intesse
piccoli punti sparsi di colore
sulla sbiadita tela universale.

I bambini di Gaza sul fondo del Sand Creek
confessare di esistere è una condanna a morte
I bambini in miniera con gli occhi di cobalto
confessare di esistere è una condanna a morte
La mano alzata davanti al manganello
confessare di esistere è una condanna a morte
L’operaio che ferma, ferma ancora la macchina
confessare di esistere è una condanna a morte
Le bambine spose, le bambine in tivù
confessare di esistere è una condanna a morte
I pastori schiacciati ai confini degli imperi
confessare di esistere è una condanna a morte
L’allucinato che infine, sulla porta, grida
confessare di esistere è una condanna a morte
Moltitudini, moltitudini, moltitudini invisibili
confessare di esistere è una condanna a morte

Le donne chine dietro i veli o le cortine
se hai un’anima a ciel sereno, ti divoreranno
Le donne chine nei centri commerciali
se hai un’anima a ciel sereno, ti divoreranno
Le donne chine nei laboratori
se hai un’anima a ciel sereno, ti divoreranno
I bambini che nascondono il viso nel braccio
se hai un’anima a ciel sereno, ti divoreranno
Gli impauriti che piano, piano sopravvivono
se hai un’anima a ciel sereno, ti divoreranno
I pazzi nei cerchi delle solitudini
se hai un’anima a ciel sereno, ti divoreranno

La bambina che guarda l’oltremare
è stanca. Si avvicina alla risacca
schiumosa – la vorrebbe attraversare –
se hai un’anima a ciel sereno, ti divoreranno.
È quello che mi succede.
È quello che mi succede.
È quello che mi succede.

Anime seppellite, anime nascoste
che tirano avanti fra un conto e un tradimento
fra un rancore sedato e un accomodamento
fra un discorso sul calcio e uno sciottino
dopo il lavoro, fra lo schermo azzurrino
del televisore e lo stretto paralume
sul comodino ikea, ori sotterrati
non crescono

E invece l’anima deve poter essere.

La bambina che guarda l’oltremare
si è tuffata nel mare del dolore
da cui non si riemerge in questo mondo.

I bambini di Gaza sul fondo del Sand Creek
Il Sand Creek che lo stupra un nome inglese
Le bambine stuprate fra chiese e moschee
e sinagoghe e fiocchetti in tiktok
e tavoli da pranzo e trincee e botteghe
I bambini ipnotizzati dal cobalto
e dalle buone o cattive maniere
Le maniere, le miniere, sappiate:
confessare di esistere è una condanna a morte

La bambina che guarda l’oltremare
ha scontato la pena anche per noi.
Noi vittime e assassini, intercambiabili in
uno sguardo stupito
sbarrato dentro

Guardo attonita e inerme la mia essenza
che scorre tra le fughe del pavimento e si secca.
Guardatela anche voi (tutti i corsivi sono versi suoi)
– ma esercitate bene, prima, gli occhi:
non ci sono aiutini, non è da faciloni.

La bambina che guarda l’oltremare
scrive un libro poetico politico.


Sulla porta

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(Questa cosa inutile, irrilevante, devo
concedermi di scriverla, forse – non c’era
chi potesse avvisarmi, non è strano.)

Quaranta passi. C’è qualcosa sulla porta.
Forse un avviso, magari dell’acquedotto:
sospensione dell’acqua per lavori.

Trenta passi. Sembra un annuncio funebre.
Ma potrebbe anche essere pubblicità
strampalata, di qualsiasi cosa.

Venti passi. È un annuncio funebre.
Sono cinque piani, tre alloggi per piano.
Qualche vecchio condomino, fra tanti…

(Il bambino nascosto fra le viscere
ha già capito, invece, e si copre
gli occhi col braccio, ancora un istante.)

Dieci passi. Non è la foto di un vecchio.
C’è del biondo, e del rosa di un vestito.
Forse non vedo bene, non c’è luce.

Cinque passi, tre passi, un passo. Lettere
grandi, in corsivo, mi pare, non so.
L’occhio le sparge, non le tiene insieme.

Unitamente ai parenti tutti annunciano
la nascita al cielo di – di anni trenta
anticipatamente quanti si uniranno…

Il nome grande, in corsivo, poi
devo averlo letto, però non ricordo,
sono finite tutte le parole.

(Questa cosa inutile, irrilevante, devo
concedermi di scriverla, forse – non c’era
chi potesse avvisarmi, non è strano.)


Scritta il 23 aprile 2024.

Driade 2019

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Benché il pretesto fosse fare foto
non eri una modella quel giorno nel bosco:
eri una driade, così come nei campi
eri un bambino inventato a matita
e nei baci sull’uscio eri la sposa
lieve per il non essere esistita.

Eri una driade, come un’Euridice
sopravvissuta a morsi di serpenti
ma con veleno rimasto nel sangue
– e dubitosa di canti d’Orfei
sposati in brevi nozze, inadeguati.

Ti ho vista felice soltanto nel tempo
che non ha calendari, soltanto nello spazio
che non ha mappe né punti cardinali.

Qui tutto questo è vietato: il registro
non contempla driade né bambino inventato
né sposa inesistita, e il calendario
è rigoroso ed è bene orientato.

Ho sperato che potessimo resistere
più tempo, come certe ruote storte
che pur carpiandosi reggono carri
in viaggi inutili, solo per un monito
a cocchieri, o nei raggi piegati
per un alito a lucide pozze segrete.

Non valeva la pena, vero? Un Pan
feroce e ottuso insegue le driadi
che per salvarsi si mutano in anime
– ogni altra figura è posseduta.

Che Pan si secchi nell’irto dei boschi
pietrificati, lo soffochi il puzzo
delle carni timbrate dai macelli.

Tu con le ninfe non viste sei volata
dove non so e non sapere è salvezza.


Scritta l’8 aprile 2024.

Alla faccia del non essere

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Avevo intuito che sei capace
di troncare una relazione
per mesi, per un anno, e tornare
a riallacciare come fosse passato
un giorno o due, così quando l’hai fatto
con me anche a me è sembrato
d’averti sentita ieri – il dolore
che pure avevo provato feroce
per il tuo abbandono, s’è dissolto
in un attimo al sentire la tua voce
riparlarmi. Poi però sei andata
più lontano, so che adesso è diverso:
hai traversato il mare-che-non-c’è
che fa non essere chi ci s’immerge
cioè tutti, alla fine. Però
(alla faccia del non essere) credo
che in qualche modo tu richiamerai:
ci vorrà tempo o forse ci vorrà
lo svanire del tempo, ma tu
ne sei capace, tu richiamerai.


Scritta il 26 marzo 2024.

Mattino freddo

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Il vento strappa il fumo dai camini sui tetti.
Affrontare il disagio, dottore, affrontarlo
come una malattia psichiatrica? Non dico
che non serva, in qualche caso, in emergenza
qualche farmaco e, di più, ascoltare, farsi carico
dell’anima intera anche a costo di perdere
la propria (perderla, trasformarla) ma dottore
questo non lo può fare nessun professionista
né clinica pubblica né privata né istituto:
non ci si gioca l’anima per una parcella
o per uno stipendio, ci vuole un’amicizia
di quelle che accadono una vita su tre
o innamorarsi in quel modo con l’amore
che accade forse una vita su cinque e dunque
con il massimo rispetto, dottore, è un palliativo
tutto quello che si fa, la psichiatria, i servizi
e ben vengano, sia chiaro, è qualcosa
d’altronde ogni cura, a ben vedere, è un palliativo
perché la morte non la ferma nessuno
però adesso mi sono disperso, ciò che volevo dire
– la pausa della pioggia fa scoprire un po’ di fiume
fra gli alberi nudi inchinati dal vento –
sul disagio, ecco, è che il pazzo, il vero pazzo
è chi si trova a suo agio in questo mondo feroce
e il vero delirio è raccontarsi che va bene
questo massacro, questa sopraffazione
che quando vedi e senti non puoi mica sopportare
e allora gli occhi li socchiudi o li punti
verso un angolo calmo, un riquadro di terra
concesso al tronco di un albero in un viale
ma chi ha bisogno di boschi, boschi interi
si stanca, è sfinito per dolore, non riesce
più a vivere, non riesce, non riesce e non c’è
una soluzione, ci si dibatte o si rimane immobili
nella fiumana di melma e acqua e sangue
che nutre, a riva, i fiori del rimpianto.


Scritta il 3 marzo 2024.

(la voce a te dovuta)

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(la voce a te dovuta)

{[Il pensiero che a te sia dovuta
la voce, mi ha portato a rileggere
Salinas e ho scoperto che il titolo
di Salinas è un verso di Garcilaso:
allora ho preso in prestito
le Egloghe alla biblioteca civica:
«mas con la lengua muerta y fría en la boca
pienso mover la voz a ti debida»
anche da morto, con la lingua fredda
vuol muovere la voce a lei dovuta
(«tra le ossa fini / dilaniate non potevo
respirare senza ridere» rispondi):
che noia questi Rinascimentali:
non amano donne, non amano persone:
amano l’amore proiettato:
un’immagine priva di sostanza
composta e ricomposta in una sorta
d’anatomia ideale, pornografica
senza corpo né anima: su questo
fanno versi eleganti, sofferenti
per finzione gloriosa, non contaminati
dalla volgare vita vera, roba
di servi e di bordelli.]

[Ah! Esagero, forse, sì, ma è che
a me non frega niente dell’amore:
sempre ho scritto di te, per te, con te:
molto incerto del mio sapere amare,
del mio sapere cosa fosse amore:
se c’è, sei tu che me l’hai fatto essere
vivendo e nominando: quando hai detto
«Carlo, il tuo amore per me
m’insegna ad amare me stessa», quando
hai detto «Carlo, ti sei innamorato
di me» – ecco allora
è esistito amarti, innamorarmi.
Non in concetti astratti, tantomeno
nei voli vani della fantasia
è, se esiste, l’amore: è, se è, là dove
lo fa essere, dicendo, la tua voce:
parlare amore è parlare di te.]}

La voce a te dovuta
non posso restituirla
con i miei versi, con le mie parole
d’inciampo e d’impotenza:
perché è la voce rubata con sgarbo:
perché è la tua, la voce a te dovuta.


Scritta il 25 febbraio 2024.

Spritz

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Cade un albero, ne cadono due
poveri alberi, sì però si sa
che un albero che cade fa più rumore
di una foresta che cresce
cade qualche albero, pazienza
ma c’è tutta la foresta che cresce
sicuramente c’è da qualche parte
quindi stiamo tranquilli, beviamoci uno spritz.

Cade una ragazza da un balcone
ne cadono due, forse tre, ma non fanno
rumore, si buttano lato cortile
per non disturbare i passanti
poverine sono casi patologici
disperati, è penoso, sì ma
guarda qui quante ragazze e ragazzi
sereni, allegri, guardano le vetrine
e si danno il cinque e ridono forte
una massa di lieti ragazzi ai tavolini dei bar
quindi stiamo tranquilli, beviamoci uno spritz.

Cadono i sogni, sì ne sono caduti
di sogni, anche tante illusioni
sono cadute e cadono, ogni giorno
ne vanno giù, come gli alberi, come le ragazze
ma morto un sogno te ne inventano altri
alla tivù, nei centri commerciali
o sui telefoni, sogni solidi robusti
progettati per la nostra sicurezza
e innocui, senza ansie né dolore
quindi stiamo tranquilli, beviamoci uno spritz.

Cade l’arte, cade la bellezza, cade anche l’amore
e l’entusiasmo, cade quell’impazzire
per lei, per lui, o per una canzone
di quelle profonde, o un quadro, cade
il sentimento di tutte le cose, ma va detto
che l’amore, la bellezza, il sentimento
e l’arte, in fondo sono grattacapi
è roba che ti agita, forse è meglio se cade
e per un artista che cade ci sono tanti
divertimenti con tutte le luci
anche culturali, eh, Van Gogh Experience
e l’emozione di un viaggio in un villaggio
turistico, dove non succede niente
di pericoloso, te la godi
quindi stiamo tranquilli, beviamoci uno spritz.

Cadono bombe. Bombe? Ma là, non qui.
No, ascolta, qui. Senti i colpi, vedi il fumo?
Qui dietro. Una sulla tangenziale
verso Caselle, una sulla stazione Porta Susa
e ne cadono altre, sugli stabilimenti
senti che rumore, senti, trema la terra,
viene giù tutto… Ma dove correte?
Perché correte, in disordine, tutti?
Siete impazziti di terrore, adesso
dove correte, sapete dove andare, cosa fare?
correte come animali spaventati, un momento
avete dimenticato sul tavolino lo spritz.


Scritta il 28 gennaio 2024.

Mitù

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Ho trovato, infilato in un vecchio libro, questo strano componimento, scritto a penna su carta grezza. Non è di grande finezza, sembra il tentativo poetico di un artigiano alfabetizzato (penso al commesso farmacista gozzaniano) o di uno scolaro. C’è un riferimento manzoniano, con la differenza che qui agli azzeccagarbugli (alla “legge”) si è rivolta la ragazza stessa, non un promesso sposo. Ci sono alcune parole indecifrabili, forse di un gergo locale o di un idioletto familiare: che cosa sono gli smarti e gli engioi? Il mitù che si ripete potrebbe essere il nome o soprannome affettuoso dato alla fanciulla, oppure un semplice espediente ritmico. Complessivamente, il testo non è oscuro, e potrebbe datarsi intorno alla metà dell’Ottocento: a simboleggiare le caste alte c’è la classica tradizionale regina, ma compaiono già anche i potenti della rivoluzione borghese industriale. Il finale è tragico, con un suicidio. L’ambientazione è rustica, forse con una migrazione a breve raggio tipica di quell’epoca (i paesi non suoi) – migrazione che potrebbe essere simbolica, se vogliamo attribuire questa capacità all’ignoto anonimo autore, spinto probabilmente a scrivere, in modo occasionale, da una storia vera da lui vissuta.

MITÙ

Mitù, mitù, se tu
fossi stata regina!

canta la ragazzina
nei paesi non suoi
fra gli smarti e gli engioi
che da ogni vetrina
urlano meraviglie
di brutte paccottiglie.

Ha in una tasca i fogli
degli azzeccagarbugli
con un’archiviazione
del regio tribunale:
non s’abbia a sparger male
sulla reputazione
del signore potente
che a suo piacimento
per il suo gradimento
si prende chi gli pare.

Mitù, mitù, se tu
fossi in nobili arti
fossi in giri potenti
figlia di grandi padri!

allora guai ai ladri
e forca ai delinquenti
che hanno osato rubarti!

Ma sei contadinella
bella come una stella:
lo sanno il bosco e il fiume
la luna che fa lume
lo sanno il pino e il noce
l’erba che ti conosce.

Mitù, mitù, non più
cerco qui una salvezza:
mi vince la tristezza.

Tace la ragazzina
e adagio s’incammina
per i sentieri suoi
dove canta il torrente
dove l’acqua è lucente:
quasi sorride, poi
lascia i fogli sulla sponda
si abbandona nell’onda.


Rinvenuta nel 2023, scritta forse alla metà del sec. XIX.

Fine

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Inviluto sono li scolosmini
di quello tempo, ricordate
ch’erano sì gai e fini.

Giacomo da Lentini

Eri così fine, nel cappotto grigio ruvido
o nuda sul tuo letto, tu eri fine.

Per disegnare il tuo viso e i tuoi capelli
serve un pittore non di questo mondo.

Tu dimostri che il corpo è metafisico:
restituisci lingua ammutolendo.


Scritta il 9 ottobre 2023.

Tras

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C’è quell’aria di prima di un trasloco.
Tu hai già portato di là delle cose.
Il giorno è uggioso ma non è nel meteo
l’uggia: piccole spighe non si fermano
dall’oscillare contro il marciapiede
ed è vita, te la vorrei mostrare.

Tu hai già portato di là delle cose
nostre e non ritorni. Ovunque guardo
mi confondo: le cose che hai levato
ne reggevano altre che ora cedono
rimescolando tutto, e quando parlo
mi manca nella voce la tua voce.

L’umanità ha nostalgia d’un sogno
che chiama età dell’oro, che sta prima
d’ogni memoria, e la vaghezza è balsamo.
Ma tu, tu d’oro, noi siamo vissuti:
da svegli e sobri nelle nostre età
l’abbiamo fuso insieme, il nostro oro.

«Dove sono i miei fiori?» tu scrivevi
sulle pareti dei tuoi disincanti.
«Dove sei tu?» io domando ogni giorno
e fuggo le risposte, mi rannicchio
per trattenere o dissipare mondi.
Si fa buio e né so né sono nulla.


Scritta il 21 settembre 2023.

Fiori per caso

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I fiori più belli sono fiori per caso
(già è stato detto ma è bene ribadirlo):
fiori nati sui cigli delle strade
o delle rogge, o in fessure di cemento
o in boscaglie di rovi
o in altri luoghi impossibili, strani.

La gente tira dritto e non li guarda
per non correre rischi. Se li guardi
ti puoi innamorare. Innamorarsi
è roba grande, però se t’innamori
di uno di questi, tu devi sapere
certe cose. Non lo potrai portare
via con te: lo faresti morire.
Potrai tornare a vederlo ogni giorno
anche per ore, se d’altro non sei schiavo:
ma non portarlo via.

Chiunque passi, invece, lo potrà
strappare e uccidere senza averne biasimo
ma anzi lode: “ho tolto un’erbaccia”.
Se tu pieno di furia e di dolore
lo abbatterai con un pugno, finirai
in galera o in reparto psichiatrico:
“un pazzo colpisce al volto un passante
nella via tale, confusi i moventi:
arrestato, delira di un fiore”.

Se non saranno passanti assassini
pure il Comune potrà provvedere
a una strage con motofalciatrice
per “pulire la strada”.

Se nessuna di queste disgrazie accadrà
lo vedrai appassire, da qui non c’è scampo
salvo che muoia tu prima d’autunno:
questo peraltro è anche coi fiori
dei giardini curati o delle serre.

Dai giardini curati talvolta succede
che un fiore fugga e si mescoli ai randagi:
se lo fa, perde tutti i privilegi
anzi rischia di più: “guarda, un ibisco
cresciuto in discarica, strappalo subito,
qui puoi, è di nessuno, lo portiamo
a casa, lo mettiamo in un bicchiere”.

Tu innamorati ugualmente: nessuno
è di nessuno, qui almeno siete liberi
di respirare l’acre del catrame
o l’umido del fosso verso sera:
e nelle case e nei giardini chiusi
c’è solo un gregge di imbecilli illusi.


Scritta il 22 settembre 2023.

19 settembre, san Gennaro

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San Gennaro, nell’ampolla del Mediterraneo
se ne scioglie di sangue acqua marina
e quanta ferocia su tutte le sponde!

Chi viene a venerare il tuo boccetto
è assassino, come tutti. Quanto sangue
in prigione, in cantiere, nelle fabbriche
del lavoro venduto come roba
infima, quanto sangue sulle strade,
nelle case delle famiglie oscure,
nei cortili in cui gentilezze fragili
dai balconi si lanciano, estenuate.

Fallo scoppiare, una volta, il tuo boccetto
ai pii in faccia, che ognuno sia lordo
di sangue, come è: gridagli: basta!


Scritta il 19 settembre 2023.

Ti ricordi?

Ti ricordi montagne verdi?
L’improvvisa e (oggettivamente?)
imprevedibile eruzione/erezione
arborea o lavica, c’est la même chose
concede forma umana
(distorta? distorta da quale?)
prima di svanire/svenire/svenare
(svernare?) in un intertempo
che ancor meno degli altri
permette, promette o solo vellica
(impermanenza è una parola dotta)

ciò che.

Vite in vite si configgono (trafiggono
infliggono glissanti diagonie)
per umile bisogno il ποιητής
si fa dio, crea in alto celest᷅i‗᷆occhi
finge copule d’alberi am[mal]ati
con te, ovverosia con tutto.


Scritta il 7 settembre 2023 in associazione al dipinto.

Ciocovel

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Stavo pensando adesso – attività pericolosissima – una cosa. Dunque. A me il velo islamico, nei suoi vari livelli, mette tristezza, così come anche quello delle suore e simili: mi dà la sensazione di una negazione della donna, di un rinchiuderla, di un metterla in un sacco come cosa vergognosa. Poi mi dà anche un disgusto estetico, mi sembra un affronto alla bellezza della creatura umana, alla fiaccola che (secondo me) non deve mai essere messa sotto il moggio, a una deturpazione del fascino arcano del corpo – così come certe coperture a tappeto di tatuaggi o certi macelli di piercing. Però magari qualcuna è contenta di velarsi, e molti sono contenti di farsi metri quadri di tatuaggi e trafiggersi con chili di metallo varie parti del corpo. Ogni persona è diversa e ha un diverso linguaggio – la comunicazione si basa sul cercare, con amore e tenacia, piccoli agganci, parole in comune da cui partire – eh, mica è facile, fin dall’antichità.

A “voi” (alla maggior parte di “voi”: è che non ho ancora letto o sentito voci di dissenso – chiedo scusa di questa generalizzazione, ma è per semplificare la sintassi) invece dà fastidio una ragazza parzialmente ricoperta di cioccolata messa in una composizione di arte certo non sublime ma comunque, nelle intenzioni, arte: creazione, idea. Io viceversa di questo non ho nessun fastidio, ci vedo solo il lavoro di una modella al servizio di una “installazione” mediocre sì – ma è, se ho ben capito, un alberghetto di grossolano lusso, non il Guggenheim o la Biennale – e non si può censurare niente, mai, sulla base del “livello artistico” – se no è subito regime. Artisticamente potrei tutt’al più criticare che la ragazza fosse in bikini: è ovvio che in una situazione del genere, fluida e statuaria, doveva essere completamente nuda, come Venere o un marmo greco o una sirena – ma d’altronde a quest’ultima i disneyani mettono il reggiseno e vabbè.

Spero che la modella sia stata contattata correttamente, abbia espresso un suo parere sull’opera e sia stata adeguatamente compensata. Stranamente di questo, che per me è l’unica cosa “moralmente” rilevante, non trovo (magari non sono bravo a cercare) traccia nei vari articoli. Tutti si fermano allo scandalo di un’immagine. E vanno giù pesanti, come se quell’immagine fosse il massimo della turpitudine, peggio persino del sorrisetto ebete estasiato con cui un attore/attrice proietta, in una pubblicità di dieci secondi, un detersivo o un’automobile nel mondo delle emozioni profonde, cioè defeca sull’anima – ma di questo nessuno si accorge, si vede che va bene così.

Nell’accanimento contro una statua vivente di cioccolato (questo è, alla fin fine: niente di che) vedo turbinare cattive coscienze, bacchettoneria, invidia, conformismo vile, maschere ipocrite, misoginia; vedo “il corso della vita deviato su false piste”, ossia ciò che i bambini di Sereni non perdoneranno. Questo vedo io, poi si tratta solamente di me, del mio cuore un po’ esagerato e dei miei occhi, niente di rilevante.

Però: io non mi metto in guerra contro il velo islamico o monacale, e nemmeno contro i tatuaggi-tendaggi o contro il piercing-ferramenta. Mi limito a dire che sono cose che non mi piacciono: il che non mi dà nessun diritto di censura o discriminazione o condanna. Non scaglio nessuna pietra contro nessuno.

“Voi” invece scagliate eccome, o così mi pare, forse sbaglio, ma nel caso la domanda che vi faccio è: perché?

Non so se mi sono spiegato bene, fa caldo e sono un po’ stanco.


Scritto il 24 agosto 2023.